L’Archivio di Stato di Varese ha acquisito in tre diverse occasioni, tra il 1989 e il 2001, un epistolario denominato fondo Foscarini. Si tratta di un complesso di lettere indirizzate a Giacomo Maria Foscarini e in minima parte al figlio Benedetto e ad altri corrispondenti, datate dal 1788 al 1836, anche se la porzione più consistente si colloca tra il 1815 e il 1822. Quest’ultima comprende quasi esclusivamente le relazioni dell’agente di campagna Vincenzo Fiorio al proprietario Giacomo Maria Foscarini.

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Disegno di una piantagione di viti nella tenuta di Cartabbia, facente parte della lettera inviata dall’agente di campagna Vincenzo Fiorio il 13 aprile 1816 al proprietario Giacomo Maria Foscarini. Archivio di Stato di Varese, Fondo Foscarini, I acquisto, b. 1, lettera del 13 aprile 1816 con un disegno. Foto di Niccolò Critelli

Su quest’ultimo non si avevano notizie, a parte la supposizione, poi dimostratasi errata, che appartenesse alla nota famiglia veneziana di cui faceva parte il doge Marco. L’epistolario fornisce informazioni su Giacomo Maria, sulla moglie, sull’unico figlio Benedetto (continuamente citati) e sui familiari di quest’ultimo, fino al 1836. Offre inoltre qualche indicazione sulle attività commerciali e scientifiche del proprietario, ma non rivela nulla sulle sue origini.

Si è reso necessario pertanto, partendo dai pochi dati certi, iniziare un’indagine complessa, che prendesse in considerazione altre fonti, in particolare quelle reperibili a Venezia e in diversi archivi lombardi. Fondamentale è risultato l’apporto della documentazione veneziana dell’Archivio della comunità israelitica, dell’Archivio IRE (Istituzioni di Ricovero e di Educazione) e dell’Archivio storico del Patriarcato, nonché di  alcuni testamenti reperiti sia presso l’Archivio di Stato di Venezia che presso gli archivi di Stato di Milano e Como. Si è appurato che il Foscarini era un veneziano, giunto in Lombardia dopo la cessione di Venezia all’Austria nel 1797, che mediante l’acquisto di beni nazionali di provenienza ecclesiastica costituì un ingente patrimonio fondiario a Varese e dintorni.

In quel periodo lasciarono Venezia altri personaggi legati alle idee della Rivoluzione francese, tra cui Vincenzo Dandolo, che si trasferì a Varese proprio su invito del Foscarini e nella cui abitazione si riunivano gli esuli veneti, che costituirono una sorta di colonia. La ricerca sulle persone citate nelle lettere ha evidenziato l’origine ebraica di Giacomo Maria Foscarini, già Jacob di Simon Motta, e ha permesso di ricostruire parzialmente la genealogia della sua famiglia nel Ghetto veneziano. Jacob, nato nel 1759, si convertì insieme alla moglie Allegra Jesurum nel 1784 ed ebbe come padrino di battesimo Giacomo Foscarini ai Carmini, da cui prese il nome. Da alcuni atti notarili risulta che sia lui che il padre esercitavano la professione di negoziante. Dopo vari anni di permanenza a Varese, il Foscarini si trasferì a Milano, continuando però a occuparsi delle sue proprietà nell’area varesina tramite l’agente Vincenzo Fiorio, cui forniva per lettera dettagliate istruzioni sulla conduzione dei beni e sulle tecniche di coltivazione. Morì a Milano nel 1833, ma venne tumulato a Cartabbia (Castellanza di Varese), dove il figlio eresse una cappella mortuaria in ricordo dei genitori.

Vincenzo Fiorio, nato a Bologna  il 27 luglio 1777 e morto a Galliate Lombardo il 2 agosto 1842, è autore della maggior parte delle lettere presenti nel fondo. Anche sulla famiglia del Fiorio si è reso necessario indagare, allo scopo di comprendere vari riferimenti alle persone citate nell’epistolario. Purtroppo non fanno parte del fondo le comunicazioni del proprietario al suo agente, tranne un breve appunto non firmato e inviato da Milano il 15 marzo 1820, che sembra essere di pugno del Foscarini. Appartiene al Foscarini anche la minuta di una risposta del 3 febbraio 1820 a una lettera di Giuseppe Compagnoni. Alcune disposizioni del possidente sono trascritte nelle lettere del Fiorio o si intuiscono dalle sue risposte.

La figura del Foscarini emerge perciò in maniera indiretta dall’epistolario e dalle testimonianze di Tullio Dandolo, che ne scrisse il necrologio e ne parlò nei suoi Ricordi, pubblicati nel 1868. Di lui hanno scritto anche studiosi che si sono occupati di bachicoltura, ricordando le sue ricerche nel settore. Il Foscarini infatti pubblicò alcuni articoli sulle malattie dei bachi da seta, in cui segnalava le esperienze compiute con criteri scientifici nelle sue proprietà in merito all’allevamento dei filugelli.

Di carattere schivo e riservato, Giacomo Maria Foscarini, che risultava essere uno dei principali proprietari terrieri dell’area varesina, accettò comunque di ricoprire cariche pubbliche di livello locale durante il periodo napoleonico. Fu pertanto consigliere, revisore dei conti, savio e sostituto del podestà del Comune di Varese e sovvenzionò la comunità durante il passaggio delle truppe imperiali nel 1799. Con la Restaurazione, il Foscarini, come Vincenzo Dandolo, preferì dedicarsi alla gestione delle sue terre e ai suoi studi sui bachi da seta.

Le relazioni del Fiorio forniscono un panorama dell’attività di un’azienda agricola lombarda della prima metà dell’Ottocento, ne definiscono i rapporti col territorio e ne indicano i fattori di forza e di debolezza nei confronti del mercato. Le produzioni economicamente più rilevanti erano la seta e il vino. Le tenute del Foscarini parteciparono alla tendenza, comune nell’agricoltura lombarda, a privilegiare la coltura dei gelsi rispetto ad altre coltivazioni tradizionali, quali il mais o il frumento. Nelle lettere si parla spesso dei vivai di moroni (gelsi) e dei trapianti delle pianticelle, delle cui foglie si cibavano i bachi da seta. L’allevamento dei filugelli avveniva in stanze riscaldate, la cui temperatura era tenuta sotto costante controllo mediante termometri. I bozzoli erano consegnati alle filande per la tessitura.

La coltivazione della vite avveniva nei ronchi, aree collinari terrazzate, in cui, tra un filare e l’altro, si seminava di solito un po’ di mais. Spesso però con le viti si costituivano pergole (toppie). Le qualità preferite erano indicate con nomi locali, non sempre identificabili con cultivar note in altri territori. Il Varesotto, nei secoli passati, era un’area di notevole produzione vinicola. La maggior attenzione dedicata dagli operatori economici all’industria a scapito dell’agricoltura e le difficoltà specifiche dovute alle malattie della vite, che si erano diffuse a partire dalla metà del XIX secolo, hanno ridotto e praticamente annullato questa produzione, che è in ripresa solo da pochi anni.

L’azienda del Foscarini produceva vino di varia qualità, per soddisfare le diverse esigenze del mercato. La maggior parte del prodotto, come avveniva in quasi tutto il Nord, era un vino di scarsa qualità e durata, da consumare entro l’anno di produzione. Molto richiesto era anche il caspio, ottenuto da una seconda spremitura delle vinacce. Per i consumatori più esigenti si producevano e conservavano anche vini di buon livello, che erano destinati agli osti o in parte esportati. Dalle vinacce si ricavava anche acquavite, mentre dai vini non più utilizzabili per il consumo si otteneva l’aceto.

Le terre del Foscarini erano affidate per la coltivazione a numerosi massari, che vi abitavano con le loro famiglie e utilizzavano per il lavoro dei campi dei bovini che servivano anche per la produzione di concime (rutto). Tra gli altri prodotti ricordati nelle lettere, vi erano il fieno, il legname, proveniente dalle aree boschive, e vari tipi di frutta, come pesche, prugne, ciliegie, fichi e castagne. Sono citate anche le patate (pomi di terra), introdotte in Italia da Alessandro Volta e poi consigliate da Vincenzo Dandolo come alternativa ai cereali soprattutto nei periodi di carestia.

Le lettere del fondo forniscono informazioni anche sulla vita veneziana della fine del XVIII secolo e del primo Ottocento. Oltre la lettera del 1788, relazione di argomento commerciale in dialetto veneziano, ve ne sono due, scritte nel 1799 da un certo Raimondi, amico del Foscarini, che rappresentano bene la vita quotidiana e gli svaghi degli esponenti dei ceti abbienti nella Venezia di fine secolo. Più avanti, dopo il 1815, saranno le comunicazioni del fratello di Fiorio, riportate fedelmente dall’agente, a raccontare la situazione dell’economia veneta del periodo. Le notizie sulla situazione delle tenute comprendono anche la segnalazione di malattie e incidenti, che spesso si estende a Varese e dintorni. Non mancano neppure riferimenti a fatti di cronaca.

Oltre che essere testimonianza di un’economia e di una realtà sociale, la prosa di Vincenzo Fiorio risulta di  notevole interesse per la storia della lingua e per questa ragione una studiosa tedesca, Waltraud Weidenbusch, ha inserito gli scritti del Fiorio tra le fonti scritte sull’uso della lingua italiana in Lombardia nella prima metà dell’Ottocento.

Con il 1822 sembra concludersi il rapporto epistolare tra il Fiorio e il suo principale. Non ci sono pervenute infatti lettere relative agli anni immediatamente successivi, mentre a partire dal 1° gennaio 1830 iniziano i rapporti firmati da un nuovo agente, Giovanni Battista Mauri. Si tratta di un numero limitato di relazioni, dal contenuto più scarno. Sappiamo comunque da altra fonte che negli anni 1824-1825 il Foscarini si avvalse della collaborazione di un diverso agente, Giuseppe Ronzoni. Del periodo 1834-1835 sono state conservate infine solo alcune lettere, indirizzate a Benedetto Foscarini. Alcune di queste sono firmate da Giovanni Stefanini, che sembra si sia occupato a Varese di alcuni affari del figlio di Giacomo Maria che, come il padre, risiedeva a Milano.

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