È andata maturando lentamente anche a livello politico la consapevolezza di dover segnare una netta discontinuità con il clima buio degli anni ‘70 del Novecento e dei fatti che in quegli anni hanno drammaticamente e profondamente minato il rapporto di fiducia tra cittadini e apparati dello Stato. Percorso arduo e per nulla scontato, ma incoraggiare e agevolare la conoscenza e la comprensione storica di quel periodo della vita del Paese può contribuire.

Già partire dai primi anni ’90 le norme sull’accesso hanno avviato un processo teso a riequilibrare quel rapporto, anzi a rovesciarlo, ponendo il cittadino al centro di una struttura di servizi che nel loro operare ambiscono ad essere efficienti e soprattutto trasparenti. Un percorso sollecitato e sostenuto dalle forti e legittime istanze di verità e di giustizia manifestate negli anni dalla società civile, in particolare delle Associazioni dei familiari delle vittime del terrorismo, e dalle esigenze di conoscenza degli storici contemporaneisti che hanno ampliato l’ambito cronologico delle proprie ricerche fino ad anni recentissimi. Inevitabilmente ciò riguarda gli archivisti, che per mestiere a quelle istanze corrispondono con l’apporto della propria disciplina, il cui obiettivo principale è proprio mettere a disposizione, conservare e tramandare alle future generazioni le fonti documentarie.

Nel 2007 la nuova disciplina sul segreto di Stato e le informazioni classificate ha stabilito tra l’altro il principio, assolutamente inedito per il settore, che la documentazione delle Agenzie di sicurezza fa parte del patrimonio culturale del Paese e va dunque resa disponibile a fini di ricerca storica. Non sono poche le difficoltà, le contraddizioni, le ambiguità e le più o meno comprensibili resistenze che entrano in gioco nella concreta attuazione di questo principio, ma si tratta evidentemente di un principio di importanza cruciale in democrazia. Anche le modifiche del 2014 al Codice dei beni culturali e del paesaggio, riducendo da quaranta a trenta anni il tempo trascorso il quale la documentazione non più occorrente può essere selezionata per la distruzione o la conservazione, mirano allo stesso tempo a salvaguardare le fonti contemporanee e ad anticiparne la disponibilità per la ricerca storica.

Un segnale politico forte in questo senso è venuto dalla Presidenza del Consiglio con due Direttive, analoghe nella sostanza, che hanno rappresentato una accelerazione nel percorso delineato e una forzatura delle procedure ordinariamente seguite nei processi di trasmissione della documentazione. La prima Direttiva, del 2008, Presidente Prodi, ha disposto a trent’anni dai fatti che alcune amministrazioni versassero all’Archivio Centrale dello Stato la documentazione posseduta sul sequestro e sull’uccisione di Aldo Moro.  In quella occasione ha avuto luogo per la prima volta un versamento di documentazione da parte delle Agenzie di sicurezza, come peraltro previsto nella legge dell’anno prima su citata, e di strutture dell’Arma dei Carabinieri che ha un proprio archivio storico e non avrebbe obblighi di versamento agli Archivi di Stato. La seconda, del 2014, Presidente Renzi, ha fatto riferimento ad alcuni gravi episodi stragisti avvenuti nel periodo 1969-1984, ha interessato tutte le amministrazioni dello Stato e ha prodotto il versamento all’Archivio Centrale e agli Archivi di Stato di una mole di documentazione ingente. Entrambe le Direttive riguardano nodi cruciali e non ancora del tutto compresi della nostra storia recente e sollecitano negli archivisti considerazioni e interrogativi, per la verità non nuovi, in relazione allo specifico ruolo che essi svolgono quali mediatori dei processi di trasmissione della memoria documentaria.

Un primo dato su cui riflettere deriva dalla consistenza della documentazione pervenuta, un’abbondanza di fonti che può a prima vista rallegrare ma certamente impone tempi lenti alla ricerca e rischia peraltro per la sua vastità di essere di fatto inesplorabile al singolo ricercatore. Nondimeno è plausibile che in questa abbondanza sia comunque possibile per gli storici ricercare gli elementi che al di là degli episodi singoli consentano di analizzare e comprendere quel periodo storico nella sua complessità.

In questo come in molti altri casi l’abbondanza non significa necessariamente ricchezza di informazioni o assenza di lacune le quali anzi, come è stato opportunamente segnalato, sono nello specifico vaste e gravi. Gli archivisti hanno sperimentato nel tempo che all’origine della assenza di fonti possono esserci cause accidentali ma anche intenzionali, disordine organizzativo, talora veri e propri misteri. Le lacune e le modalità con cui la documentazione è stata versata rappresentano pertanto esse stesse una fonte e lo studio di questa documentazione non potrà prescindere dalla valutazione degli aspetti critici, a partire da quelli della sua selezione e organizzazione.

Le amministrazioni maggiormente interessate dalle due Direttive sono proprio quelle alle quali è riconosciuta totale autonomia nella gestione, selezione e conservazione della propria documentazione. In autonomia perciò hanno individuato, selezionato e versato le proprie carte e l’esito di queste attività è stato in diversi casi deludente. Ma anche laddove l’amministrazione archivistica esercita la sua funzione di sorveglianza appare evidente quanto sia debole e soprattutto fortemente limitato nel tempo il controllo che le amministrazioni esercitano sulla propria documentazione. Si è giustamente sottolineata la disorganicità e la frammentarietà che caratterizzano i nuclei documentali versati. Sotto questo profilo andrebbe forse considerato che si tratta di documentazione più volte riorganizzata in relazione allo svolgimento dei vari procedimenti giudiziari condotti negli ultimi decenni e non ancora definitivamente conclusi. In molti casi si sono prodotte duplicazioni e soprattutto sottrazioni, dovute queste a sequestri disposti dalla magistratura, delle quali una corretta gestione documentale dovrebbe quanto meno mantenere traccia. A solo titolo d’esempio, si può citare il caso dell’archivio della nota Commissione Luzzatti, istituita presso il Ministero dei Trasporti per svolgere indagini sul disastro di Ustica, la cui consistenza risulta oggi così esigua e gravemente lacunosa perché una sua parte consistente fu sequestrata nel 1996 su ordine del giudice Priore.

Per quanto riguarda gli archivisti, più che indagare i criteri di selezione applicati dalle varie amministrazioni sarà necessario ai fini della consultazione degli utenti descrivere e per quanto possibile documentare le modalità di organizzazione della documentazione versata e i passaggi, spesso poco noti, tra le istituzioni che a vario titolo nel tempo hanno avuto motivo di trattarla. Tuttavia, al di là dell’impegno a rendere disponibile la documentazione esistente nei modi più efficaci e corretti, si ripropongono in questa circostanza gli interrogativi sulla efficacia dell’attuale modello organizzativo della sorveglianza sugli archivi pubblici ai fini della conservazione delle fonti contemporanee e della trasmissione alle future generazioni.

Proprio sotto il profilo della conservazione, le attività svolte in attuazione delle Direttive hanno evidenziato un aspetto per nulla trascurabile della nostra vita democratica, quello cioè della gestione e conservazione della documentazione classificata. La relativa norma del 2015 ha definito sul piano formale degli automatismi nelle operazioni di declassifica che non sembra così ovvio applicare. Tuttavia la conservazione della documentazione classificata e quindi la sua futura disponibilità per gli studi storici corre serissimi rischi in assenza di politiche e norme specifiche che, tenendo nel dovuto conto i criteri e i principi generali valevoli per la documentazione dello Stato e una volta compiute le procedure di declassifica, includano nella selezione la valutazione dell’interesse ai fini della ricerca storica. È da tempo che su questo aspetto viene da più parti richiamata l’attenzione degli organi competenti. Si può ben sperare che la discussione sul tema che si è riaperta in questa occasione e l’opera di sensibilizzazione che ne è derivata producano qualche effetto, con l’auspicio che chi per mestiere conserva o usa memoria storica non sia ignorato quando si prendono decisioni sulla possibilità di consultazione o non consultazione futura della documentazione archivistica.
Tempo fa un giudice del Tribunale amministrativo del Lazio fece esultare gli archivisti italiani con un cogente anche se indiretto invito alla corretta gestione documentale scrivendo in una sentenza che la difficoltà di reperimento della documentazione non può costituire ostacolo all’esercizio del diritto di accesso del cittadino poiché «l’interesse alla conoscenza di atti amministrativi assurge a bene della vita»… del cittadino e della democrazia.

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