Sono giorni che mi trovo a fare l’archivista con in testa alcune parole di Diane Arbus:
«Io mi adatto alle cose mal messe. Non mi piace mettere ordine alle cose. Se qualcosa non è a posto di fronte a me, io non la metto a posto. Mi metto a posto io»

Diane Arbus, provino a contatto di “Identical Twins” 1967

Mentre tengo fra le mani utili strumenti di corredo e percorro file di scaffali con l’intento di ricollegare una descrizione alla sua rappresentazione fisica, non faccio altro che convincermi di due cose banali:

  1. La caratteristica più significativa di un buon archivista come quella di un buon fotografo è o dovrebbe essere la sensibilità.
  2. Come la Arbus molti archivisti, non ordinano, né riordinano. Si limitano a descrivere.

A questo punto la cosa assume una dimensione ‘discutibile’, me ne rendo conto, tuttavia penso che fra le attività archivistiche di ordinamento e di descrizione si sia immotivatamente creata una frattura. Penso anche che gli archivisti contemporanei, abbiano dimostrato in più di un’occasione di ‘avere più a cuore’ le seconde, rispetto alle prime.

Non è insolito che un insieme di documenti sia minuziosamente descritto digitalmente, malgrado sia fisicamente, ed in molti casi anche virtualmente, disordinato. In questa prospettiva la transizione al digitale non ha migliorato le cose ma ha contribuito ad ampliare questa frattura.

Malgrado il presente ed il futuro profilino archivi sempre più immateriali, non farebbe male a molti archivisti convincersi che qualora presente, l’elemento fisico debba continuare ad essere considerato esperienza archivistica. Spostare materialmente un registro, anche se mal ridotto, per collocarlo fisicamente sullo scaffale dietro il precedente, riproducendo l’ordinamento ricostruito, è a tutti gli effetti archivistica e non logistica o movimentazione di materiali.

Nel suo mal d’archivio, Jacques Derrida, scriveva «è […] in questa domiciliazione, in questa assegnazione stabile di una dimora, che hanno luogo gli archivi» e ancora «[…] Niente archivio senza un luogo di consegna, senza una tecnica di ripetizione e senza una certa esteriorità».

È evidente che la ‘domiciliazione’ di cui parla il filosofo francese deve essere considerata contesto logico e non occupazione fisica, ma è altrettanto evidente che le due cose possono, e in molti casi devono, coesistere e coincidere.

Dovremmo essere consapevoli che quando ci si limita a spingere un bottone o a considerare sufficiente una minuziosa descrizione, accade qualcosa di potenzialmente pericoloso, che trasforma una descrizione da strumento ad alternativa della realtà e l’archivista da testimone a punto di vista determinante per tutti coloro che entreranno in contatto con il suo lavoro.

 

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