Freedom of information act, omissis, declassificazione, segreto di stato, wikileaks, cablegate... questi termini ci ricordano come il rapporto tra segretezza e trasparenza nelle società democratiche sia fatto di luci, ombre ma, soprattutto, di molte zone grigie, dove il discrimine fra diritto di accesso alla documentazione e segretezza si fa spesso molto sottile.
In questo limbo il nemico principale della esigenza della pubblicità democratica dei documenti non è rappresentato dai limiti all’accesso “regolamentati”, come il segreto di stato, quanto dal disordine (accidentale o doloso), un archivio in cattive condizioni e l’assenza dei documenti.
Nel mondo digitalizzato iperconnesso e volatile nel quale viviamo, dopo episodi come quelli organizzati da Wikileaks, abbiamo imparato che questa zona grigia è più ampia di quanto immaginassimo e non esistono più i grossi timbri TOP SECRET ma scambi di mail, dossier e hacker senza volto che pubblicano migliaia di file contenenti informazioni riservate, campagne di spionaggio o considerazioni (poco) diplomatiche.
Ma come si può rappresentare ciò che vorrebbe rimanere invisibile?
Dimenticate le immagini da Guerra Fredda di microfilm, buste beige e inchiostro rosso di timbri, il fotografo britannico, Edmund Clark, in collaborazione con il giornalista Crofton Black, hanno cercato di illuminare questa zona grigia con Negative Publicity (2011 – 2016), un lavoro che raccoglie fotografie e documenti (desecretati e “leaked“) che indagano i lati oscuri e l’erosione del diritto dopo la “guerra al terrorismo” dall’11 settembre 2001 ad oggi. In particolare si concentrano sul fenomeno della “rendition” da parte dei servizi segreti statunitensi, cioè l’arresto e la detenzione segreta di persone sospettate di attività terroristiche ma senza un legale processo o un’azione pubblica.
Negative Publicity è una riflessione sul senso di pubblicità e visibilità e del rapporto tra segretezza e sicurezza, in particolare quando viene evocata la segretezza in nome della sicurezza nazionale. Per 5 anni Clark e Black hanno riallacciato i fili di una rete di attività che i servizi segreti statunitensi hanno svolto in tutto il mondo, cercando prove e documenti, scattando foto e raccogliendo testimonianze, in un contesto dove le stesse parole diventano opache e celano la realtà.
Da un punto di vista archivistico due aspetti rendono questo progetto, un ibrido fra una costruzione artistica e il giornalismo di inchiesta, particolarmente interessante: al primo impatto colpisce l’utilizzo che viene fatto nell’allestimento delle mostre di Negative Publicity poiché i materiali d’archivio, soprattutto documenti della CIA, divengono quasi didascalie delle fotografie che ritraggono i cosiddetti “black site” (cioè quelle località di detenzione “invisibili” al margine della legalità, dove molte persone sono state fatte sparire senza processo, sospettate di attività terroristiche) e quindi guide nell’interpretazione di immagini che altrimenti sarebbero mute per l’apparente normalità dei luoghi fotografati; in secondo luogo è da sottolineare la funzione di “archivio supplente” di questo progetto, gli autori grazie alla loro ricerca, vanno a circoscrivere in modo sempre più preciso una realtà che vorrebbe rimanere nascosta: quei documenti e quelle fotografie formano un vero e proprio negativo archivistico che permette di recuperare informazioni sulle assenze, sui documenti che mancano, dispersi o distrutti, e sulle storie che si vorrebbero celare.
[Al Festival della Fotografia di Reggio Emilia, fino al 9 luglio, è possibile visitare presso la mostra Archivi del Futuro anche l’allestimento di Negative Publicity, presso Palazzo da Mosto in via G.B. Mori]