La ricerca in archivio può condurre a mete improvvise dopo giornate lunghe e infruttuose e a riscontri imprevedibili, come in un guizzo. Alcuni parlano di serendipity, anche se preferisco pensare a percorsi irrazionalmente guidati all’interno dell’infinito archivistico.
Tutto sta nel capire i meccanismi con cui qualcuno – che oggi chiamiamo “soggetto produttore” – ha deciso di determinare un ordinamento per i documenti. Tuttavia, il soggetto è qualcosa di ideale, perché tassonomia e gestione documentale passano prima di tutto dalle persone che le attuano.
Anche per questo la professione di archivista ha sempre portato con sé una coltre di fascino indubbio. Entrare in un archivio e dover attendere la mediazione culturale dell’archivista aggiunge anche un alone di mistero, in maniera particolare per chi si accosta alla ricerca sulle fonti primarie privo di un bagaglio tecnico e culturale di base.
Ecco che allora il rinvio a percorsi di ricerca impensabili e inesplorati sembra un richiamo a un qualcosa di sfuggente. Chi chiede dov’è un documento, come mai non c’è talaltro e così via, si incunea in un percorso ignorato della memoria che si svela semplicemente a chi lo sa intuire.
Ma c’è di più.
L’archivio è il complesso dei documenti prodotti da un soggetto nel corso della propria attività. La sua natura poliedrica – ma non polimorfa– rende impossibile la ricerca utilizzando le stesse informazioni per più archivi. Del resto, anche gli archivisti devono studiare e intuirne la morfologia prima di trovare qualcosa. È un po’ come imbattersi nella struttura anagrammatica di un archivio in disordine o in disordine apparente. Si inizia a ricostruire il senso della sedimentazione, a intuirne l’ordinamento, per poi iniziare il riordino, con mille variabili aperte. In poche parole, l’attività pratica spesso non coincide con l’astrazione teorica e in molti casi – ed è questa l’avventura affascinante del lavoro in archivio – la varietà di casistica irride a una precettistica rigida.
Inoltre, l’archivio ordinato ha sempre un valore inerziale, che l’entropia naturale tende a scomporre e il cosmos a ricomporre, in un agone circolare, come in un loop a tempo indefinito. Ciò significa che mille fattori esterni all’archivio (le persone, le vicende, le prassi, le norme, i traslochi, gli eventi naturali, i tumulti, i cambi di governo, etc.) tendono ad alterare un ordine per sua intrinseca natura sempre in bilico e, dunque, da preservare.
La capacità di ricomporre quest’ordine – che sa di magia, non già di esoterismo – appartiene a chi guarda un archivio dalla parte dell’archivio stesso e non di chi ricerca cose. Ad esempio, tutti sappiamo che la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America è conservata in diversi esemplari e, primariamente, negli Archivi nazionali degli USA. Pochi sanno che ne esiste un esemplare coevo (1776), tradotto per il Doge di Venezia dall’ambasciatore della Serenissima a Londra mentre relazionava in un dispaccio sugli ultimi accadimenti delle colonie ribelli che aveva scosso lo scettro di Giorgio III.
Tutto questo fa parte dell’infinito archivistico, per il quale serve preparazione essenziale su due temi: la storia di chi ha prodotto un archivio e dei modi con cui ci è pervenuto attraverso una cornucopia di variabili imprevedibili. Ulteriormente, la notizia più avvincente è che la ricerca non può quasi mai concludersi in un solo archivio. Esiste, infatti, una fitta rete di relazioni personali, sociali, istituzionali che conducono gli studiosi a esplorare, con carotaggi documentali, i più nascosti meandri della memoria conservata negli archivi di diversi soggetti produttori. Non è magnifico?
Per saperne di più
Due testi “emiliani”:
I. Zanni Rosiello, Andare in archivio, Bologna, Il Mulino, 1996, soprattutto il § 4, Le domande da porsi;
A. Spaggiari, Archivi e istituti dello Stato unitario. Guida ai modelli archivistici, Modena, Scuola APD dell’Archivio di Stato, 2002 (e ringrazio il Direttore, Patrizia Cremonini, per la cortesia).