Chiunque abbia avuto o avrà occasione di visitare Venezia, “la città fra le città” 1, da maggio a novembre di quest’anno, ha potuto o potrà vedere plasticamente rappresentate, una di fronte all’altra, due delle principali tendenze di ricerca dell’arte contemporanea: la narrazione e l’archiviazione.
A Punta della Dogana e in Palazzo Grassi, sedi espositive della Fondazione François Pinault, il più controverso esponente dei Young British Artists, Damien Hirst (Bristol, 1965), torna a distanza di quasi dieci anni dal suo ultimo successo2 con l’esposizione Treasures from the WRECK of the Unbelievable a cura di Elena Geuna, prima personale dedicata all’artista britannico in Italia dopo la retrospettiva The Agony and the Ecstasy al Museo archeologico nazionale di Napoli nel 2004.
In quella che è di fatto la prima sala espositiva del complesso della Dogana, un video commentato da un breve testo racconta al pubblico l’antefatto della mostra: «Nel 2008, al largo della costa orientale dell’Africa fu scoperto un vasto sito con il relitto di una nave naufragata. Il ritrovamento ha avallato la leggenda di Cif Amotan II, un liberto di Antiochia, vissuto tra la metà del I secolo e l’inizio del II secolo d.C. […] La storia di Amotan racconta che, dopo l’affrancazione, lo schiavo accumulò un’immensa fortuna. Tronfio di ricchezze creò una sontuosa collezione di oggetti provenienti da ogni angolo del mondo antico. I leggendari cento tesori del liberto furono caricati tutti insieme sulla gigantesca nave Apistos [in inglese, Unbelievable] per essere trasportati in un tempio appositamente edificato dal collezionista. Ma l’imbarcazione affondò, consegnando il proprio tesoro alla sfera del mito e generando così infinite varianti di questa storia d’ambizione, avarizia, splendore e ubris. La collezione rimase sul fondo dell’Oceano Indiano per circa duemila anni, prima che il sito fosse scoperto nel 2008, vicino agli antichi porti commerciali dell’Azania (costa dell’Africa sudorientale). Quasi un decennio dopo l’inizio degli scavi, questa mostra raccoglie insieme tutte le opere recuperate in quello straordinario ritrovamento».
Somewhere between lies and truth, lies the truth. L’incipit che accoglie i visitatori sulla soglia fra l’anticamera e la prima sala, prelude alla colossale post-verità messa in scena da Hirst -le opere in mostra sono tutte sue riproduzioni degli improbabili reperti archeologici riaffiorati dal fondo dell’Oceano, declinate dal verosimile al falso, ossia dalla copia dell’oggetto antico all’antichizzazione di icone della contemporaneità- e fa eco all’esergo nel catalogo della mostra tratto da L’Aleph di Jorge Luis Borges: Accettiamo facilmente la realtà, forse perché intuiamo che nulla è reale.
A Punta della Dogana l’antefatto – artefatto, fatto ad arte, si fa narrazione in cui il visitatore è invitato – letteralmente – ad immergersi. Stratificato e complesso storytelling che attraversa le sale delle due sedi espositive in ideale continuità fra loro per concludersi nell’ultimo ambiente di Palazzo Grassi con Hands in Prayer, piccola scultura in malachite di due mani giunte in preghiera che invitano il visitatore a un atto di fede: credere all’arte come religione laica, unico argine allo scorrere inesorabile del tempo e alla morte, temi centrali nella ricerca dell’artista britannico. Sulla sponda opposta del bacino di San Marco, fra i Giardini e l’Arsenale, la 57ma Biennale d’Arte Viva Arte Viva, a cura di Christine Macel, dialoga idealmente con la narrazione di Hirst attraverso i nove capitoli in cui si dipana3, ma gli contrappone anche, a ben guardare, un diverso paradigma della ricerca artistica contemporanea.
L’atto dell’archiviare ricorre frequentemente nell’esposizione, declinato in tutte le sue possibili varianti: dall’accumulazione tipologica compulsiva di Hassan Sharif (Dubai 1951 – 2016) ai metodici allineamenti di Hajra Waheed (Canada, 1980), dalla raccolta memorialistica di Abdullah Al Saadi (Emirati Arabi, 1967) alla ricerca enciclopedica di Raymond Hains (Dinard 1926 – Parigi 2005) fino alla selezione documentaria evocativa della migliore Public History pazientemente disposta da Lee Wan (Seoul, 1979) nell’installazione Mr. K and the Collection of Korean History costituita da materiali raccolti dall’artista fra il 2010 e il 2017. A questo “impulso archivistico” a tratti ossessivo che il critico d’arte statunitense Hal Foster ha teorizzato in un celebre saggio del 2004 come nuovo paradigma della ricerca artistica4, è interamente dedicato il libro di Cristina Baldacci, Archivi impossibili. Un’ossessione dell’arte contemporanea, Johan & Levi, 2016.
Storica e critica d’arte contemporanea, Baldacci (Milano, 1977) annovera fra i propri interessi di ricerca da oltre dieci anni l’archivio e l’atlante come luoghi di riflessione e, insieme, di pratica estetica. Il suo libro mette a fuoco il rinnovato interesse dell’arte contemporanea verso l’attitudine enciclopedico-classificatoria risalente alle prime suddivisioni del pensiero antico, giunta senza soluzione di continuità fino ai nostri giorni, e ne ricostruisce tutte le possibili declinazioni (raccogliere, accumulare, selezionare, mettere in lista -su cui hanno riflettuto fra gli altri Derrida ed Eco-, inventariare, catalogare, classificare, disporre, mostrare, etc.), per poi estendere ulteriormente l’analisi alle forme d’arte e alle metodologie espositive contemporanee: atlanti, mappe, album, diari, musei ideali e immaginari, Wunderkammer, schedari, database, scatole, indici, elenchi, inventari, found footage5, mostre in forma di catalogo, cataloghi visivi, raccoglitori, fino al corpo stesso, concepito dagli artisti performativi come archivio vivente o “atlante del gesto”6 e, naturalmente, alle nuove tecnologie.
Al centro di tutte queste pratiche artistiche, che si intensificano non a caso in corrispondenza dei periodi storici in cui si percepisce maggiormente il rischio di perdita della memoria – fra le due guerre, fra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso con l’inizio del processo di “dematerializzazione” o meglio di concettualizzazione dell’arte, ai nostri giorni con l’avvento delle tecnologie digitali, l’instabilità dei supporti e la crescente incapacità di selezionare le informazioni che rapidamente si accumulano -, l’archivio si qualifica come opera d’arte, “dispositivo critico e sovvertitore delle tradizionali logiche di catalogazione e trasmissione del sapere”7. Un archivio che mette in discussione la concezione tradizionale di sé stesso, le finalità, le funzioni, persino i tratti peculiari della propria fisionomia – le relazioni, i contesti, le gerarchie-, configurandosi in definitiva come “archivio impossibile”. Un archivio-paradigma, metafora della memoria e metalinguaggio della contemporaneità, per il quale l’autrice conia di volta in volta le definizioni di “anarchivio” –dove persistono criteri di classificazione, seppur allentati -, “antiarchivio” – del tutto privo di criteri ordinatori-, e “controarchivio” –luogo di sovvertimento dell’archivio tradizionalmente inteso.
Fra i protagonisti di queste peculiari declinazioni di “archivi impossibili”, quattro artisti – tre dei quali tedeschi di nascita, uno naturalizzato tedesco -, unanimemente riconosciuti precursori delle tendenze all’archiviazione, cui l’autrice dedica altrettanti capitoli del libro.
Hanne Darboven (Monaco di Baviera 1941 – Amburgo 2009), ideatrice di un peculiare sistema di “prosa matematica” e di una originale scrittura “a onda” con cui era solita annotare ossessivamente fogli e fogli (ne compilò 1590 in tre anni) a ricomporre attraverso una cartografia fatta di frammenti linguistico-visivi e di oggetti-feticcio la storia culturale di un secolo – la sua opera più emblematica si intitola Kulturgeschichte (1880-1983) – secondo una concezione del tempo non lineare ma relazionale, operosa trascrizione e insieme paziente rilettura, che le valse la definizione di “amanuense della memoria” da parte del critico d’arte Michael Newman.
Hans Haacke (Colonia, 1936) con i suoi sistemi fisico-biologici prima (1963-1967), e sociali poi (1969-1975), e in particolare con il nucleo denominato Real-Time Social Systems, ha riletto l’archivio come “sistema sociale in tempo reale”, strumento di critica sociale alle logiche di sfruttamento capitalista, basato su tre momenti distinti: reportage sociali sul censimento delle proprietà immobiliari newyorkesi, indagini sui capolavori dell’arte moderna, sondaggi rivolti direttamente ai visitatori di gallerie e musei. Questi tre momenti hanno attinto agli archivi in quelle che la disciplina archivistica ha indicato convenzionalmente come le loro tre fasi di vita: “Per i lavori sul real estate […] ho consultato gli “archivi vivi”, quelle cartelle le cui informazioni e i cui atti sono ancora in uso. Mentre per i progetti successivi […] sono andato nei veri archivi, vale a dire tra i documenti che sono “morti”. Per i sondaggi […] si potrebbe dire che ho ottenuto dati e notizie […] da archivi che dovevano ancora essere creati”8.
Gerhard Richter (Dresda, 1932), autore di Atlas (1962-2013), un “archivio-atlante nomico” per stare alla definizione di Baldacci, progetto enciclopedico – sulle orme del Bilderatlas Mnemosyne di Aby Warburg – di raccolta di materiali documentari (ritagli di giornali, collage, schizzi e fotografie scattate dall’artista), catalogati secondo criteri tipologico-iconografici, portato avanti in parallelo con l’attività pittorica, di cui costituiva repertorio d’immagini, in modo sistematico e senza soluzione di continuità per oltre cinquant’anni.
Marcel Broodthaers (Saint Gilles 1924 – Colonia 1976) con la sua opera-manifesto il Musée d’Art moderne, Département des Aigles, un museo fittizio in bilico tra realtà e finzione, partecipazione e presa di distanza, ironia e denuncia, che nel corso di quattro anni (1968-1972) fu più volte riconfigurato dall’artista per dare forma alla critica verso i sistemi istituzionali di organizzazione del sapere: il museo, certamente, ma anche tutti i luoghi preposti alla produzione e alla salvaguardia della cultura, compreso l’archivio – anch’esso simulato al pari del museo, e costituito da brevi “lettere aperte” che Broodthaers indirizzava a varie personalità del mondo dell’arte e a una generica élite cui l’artista si rivolgeva con la formula A mes amis. Questi organi di potere e controllo erano rappresentati dall’aquila, animale ricco di connotazioni simboliche, emblema dell’egemonia culturale e sigillo del potere politico-militare dall’Impero romano agli Stati Uniti d’America, la cui effige ricorreva su tutti i pezzi esposti.
Aldilà delle diverse declinazioni individuali, tutti gli artisti che hanno scelto l’archivio come luogo di riflessione teorica o anche come semplice mezzo espressivo, ne hanno riconosciuto lo straordinario potere di parlare a un pubblico temporalmente, geograficamente e culturalmente lontano da chi lo ha prodotto, veicolando valori originari soggetti a reinterpretazioni sempre diverse, e svolgendo, pertanto, in modo esemplare la funzione di dispositivo critico ri-attivatore di significati, vettore di ri-modellamento continuo della memoria.
Sebbene il paradigma dell’ “archiviare” come genere artistico sia concettualmente lontano da quello che caratterizza lo statuto della nostra disciplina, fondato su una funzione giuridico-amministrativa dell’archivio sostanzialmente estranea al fare arte, esistono delle affinità fra queste due visioni del mondo apparentemente antitetiche.
L’archivista, come l’artista – narcisisticamente volto a lasciar traccia di sé e del proprio lavoro, a trasfigurare la propria esperienza da una dimensione individuale a una collettiva-, è spesso “ossessionato” dall’oggetto del proprio mestiere, dalla brama di conoscere tutto: I Want to Know Everything, è scritto sul pavimento di uno dei padiglioni della Biennale in omaggio alla 55ma edizione del 2013 a cura di Massimiliano Gioni dal titolo “Il Palazzo Enciclopedico”. Entrambi sono impegnati a (ri)creare un ordine – originario l’uno, creativo l’altro – nell’intento di (ri)dare voce e senso alle cose, sfuggendo il caos e l’entropia. Sul fare ordine, sul (con)tenere insieme le cose cui fa da contrappeso il bisogno di avere pieno controllo sulle cose stesse e, in ultima analisi, sul proprio corpo, come funzione prevalentemente e tradizionalmente femminile molto si potrebbe dire, a spiegare una preponderanza di genere nella nostra professione – un paziente lavoro di cura, quello sugli archivi – che sembra riconfermarsi nel tempo. Anche la riflessione sul valore politico dell’archivio come strumento di potere e controllo (Foucault, Derrida) li accomuna, come pure quella – conseguente e speculare – sull’archivio come luogo di conservazione (memoria) e di perdita (oblio).
E forse il libro si potrebbe riscrivere in negativo, evidenziando nelle tendenze artistiche contemporanee e, di riflesso, nel nostro modo di gestire le informazioni, i vuoti sui pieni, l’amnesia prodotta dall’impossibilità di selezionare nei tempi velocissimi generati dall’accumulazione. Non la sedimentazione compulsiva dovuta alla “svolta materiale” (Material Turn) degli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso, ma la selezione, gli scarti, le distruzioni, le autocensure, la URL non più esistente, il risultato di ricerca indisponibile, il dato, il formato, il supporto che non è possibile conservare nel tempo.
«Notoriamente, non c’è classificazione dell’universo che non sia arbitraria e congetturale. La ragione è molto semplice: non sappiamo cosa sia l’universo». E’ ancora una frase di Borges a dividere idealmente in due parti il volume di Baldacci. Volume che ha come unica pecca le note tutte raccolte dopo l’ultimo capitolo, mentre per essere davvero funzionali alla comprensione e alla integrazione del testo cui si riferiscono, le note dovrebbero essere posizionate a fine pagina.
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1 Secondo l’efficace definizione di H. LEFEBVRE, Il diritto alla città, Padova, Marsilio, 1970. Su Venezia si veda anche il viatico di S. SETTIS, Se Venezia muore, Torino, Einaudi, 2014.
2 Nei giorni del 15 e 16 settembre 2008, mentre a New York i dipendenti della Lehman Brothers lasciavano gli uffici con gli scatoloni in mano, a Londra Hirst vendeva 218 nuove opere della serie Beautiful Inside My Head Forever a un’asta Sotheby’s senza passare per la tradizionale mediazione delle gallerie ma rivolgendosi direttamente al pubblico. L’operazione gli fruttò un incasso di 111 milioni di sterline, conferendogli il primato di artista più ricco del mondo e il record, tuttora imbattuto, di singola asta di artista vivente con la più alta quotazione mai raggiunta.
3 Nell’introduzione alla guida breve la curatrice scrive: “La Mostra offre un percorso espositivo coniugato alle opere degli artisti, piuttosto che un tema conduttore unico. Il percorso si sviluppa così intorno a nove capitoli, con due primi universi nel Padiglione Centrale: il Padiglione degli Artisti e dei Libri e il Padiglione delle Gioie e delle Paure, seguiti da altri sette universi che si snodano dall’Arsenale al Giardino delle Vergini: il Padiglione dello Spazio comune, il Padiglione della Terra, il Padiglione delle Tradizioni, il Padiglione degli Sciamani, il Padiglione dionisiaco, il Padiglione dei Colori, e il Padiglione del Tempo e dell’Infinito”.
4 H. FOSTER, An Archival Impulse, in “The MIT Press”, vol.110 (Autumn 2004), pp.3-22.
5 Letteralmente “metraggio trovato”, composizioni di immagini in movimento con o senza audio, realizzate con materiale di recupero, “film d’arte d’archivio” secondo la definizione della critica cinematografica Christa Blümlinger.
6 Per citare l’archivio delle coreografie a cura di Virgilio Sieni agito presso la Fondazione Prada di Milano dal 18 settembre al 3 ottobre 2015: www.fondazioneprada.org/project/atlantedelgesto (settembre 2017).
7 Così l’autrice in un’intervista a cura di Deianira Amico pubblicata il 4 novembre 2014 sul magazine «MyTemplArt», (settembre 2017).
8 Da un’intervista inedita di Cristina Baldacci all’artista, New York, 16 dicembre 2009, citata nella nota 13 del capitolo 16, a pagina 197.
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