Festival cinematografico che, sin dalla sua nascita avvenuta nel 1982, si concentra nell’arco di una settimana offrendo la possibilità di vedere un’infinità di rare copie d’archivio e determina la presenza nello stesso luogo e nello stesso periodo di molti – forse della maggior parte – tra i più qualificati esperti mondiali di storia del cinema – archivisti, storici, studiosi, collezionisti, critici, docenti universitari e semplici appassionati, le Giornate del Cinema muto di Pordenone hanno da sempre prestato una speciale attenzione al tema del restauro e della salvaguardia dei film, nonché all’incremento degli studi sul cinema “prima maniera”.
Proponendo corti e lungometraggi, film di finzione, d’animazione, documentari realizzati in cinque continenti, il festival si impone a livello mondiale per via del suo notevole contributo alla riscoperta, diffusione e valorizzazione di copie perdute. Anche solo attraverso la proiezione di semplici frammenti di film, talora illuminati da grandi nomi, e di spezzoni non identificati o che hanno titoli totalmente sconosciuti ma rappresentano un patrimonio importantissimo, insegna a saper accogliere le immagini cinematografiche del passato per quello che sono: regali fantastici e imprevisti, ma che spesso costituiscono un formidabile esempio di osservazione della storia e delle sue rappresentazioni. Senza ovviamente trascurare i restauri di altre pellicole più note, che vengono riproposte in copie rimasterizzate e con nuove orchestrazioni.
Dal 2009, una nuova sezione denominata Il Canone Rivisitato consente al festival di porsi come una sorta di “piattaforma” per poter ripensare ed approfondire la conoscenza delle opere filmiche assurte al rango di “classici” del grande schermo.
Quest’anno la manifestazione, giunta alla sua 37° edizione, si è svolta come consueto al Teatro comunale “Giuseppe Verdi” di Pordenone, nella settimana dal 6 al 13 ottobre ed è stata articolata in ben undici sezioni, fra le quali hanno destato notevole interesse la retrospettiva dedicata alla scoperta dei muti del regista John Stahl, l’omaggio all’attore e regista, i film tratti dalle opere di Balzac, il cinema scandinavo e la pubblicità all’epoca del muto, con una serie di spot ante litteram mirati al pubblico maschile o a quello femminile. In tutto, oltre 200 titoli prestati da quaranta cineteche ed archivi, tra cui il BFI National Archive di Londra, la Cinémathéque français di Parigi, la Deutsche Kinematek di Berlino, l’EYE Film museum di Amsterdam, il Center for Audio-Visual Conservation della Library of Congress di Culpeper (VA), l’UCLA Films&Television Archive di Los Angeles, il Museum di Gemona del Friuli e Cinemazero di Pordenone – principali enti organizzatori dell’evento – , e infine la Cineteca Italiana di Milano, la Fondazione CSC – Cineteca Nazionale di Roma, l’Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa di Ivrea, il Museo Nazionale del Cinema di Torino.
La presenza di un così vario bouquet di rarità filmiche ci ha offerto lo spunto per svolgere alcune considerazioni sul passato e presente degli archivi delle immagini in movimento. Secondo Voltaire, «la storia è un grande magazzino, dal quale attingiamo ciò di cui abbiamo bisogno», ma è necessario saper scegliere “con saggezza”: il letterato francese del XVIII secolo utilizza chiaramente l’espressione «effettuare una selezione». Tale necessità di selezionare risulta specialmente vera per gli archivi che si occupano dell’immane quantità di materiale audiovisivo prodotto nell’arco del XX secolo. Nonostante i continui miracoli della tecnologia moderna in termini di “immagazzinamento” e catalogazione di questo materiale e la generosa diffusione di strutture preposte, lo spazio e la capacità istituzionali risultano ancora sottodimensionati.
Gli archivi che da sempre devono fare i conti con questo genere di problemi, e ad essi non sfuggono gli assai più recenti archivi di immagini in movimento. Già oltre un secolo fa, trovandosi di fronte agli “incunaboli” della produzione filmica, in molti sostennero il bisogno di archiviare l’immagine in movimento. William Kennedy Laurie Dickson, un inglese che, lavorando sotto la “supervisione” dell’inventore americano Thomas Edison, rivestì un ruolo primario nello sviluppo della cinematografia presso i laboratori di West Orange, nel New Jersey, già nel 1894 affermò che «in luogo di aridi e fuorvianti resoconti, i nostri archivi dovrebbero essere arricchiti con le riprese vitalizzanti delle grandi scene nazionali, rese radiose da tutte le personalità che le connotano». Appena pochi anni più tardi, nel 1898, dall’altro capo dell’Atlantico, Boleslaw Matuszewski, cineoperatore polacco stabilitosi a Parigi, in un pamphlet intitolato Une nouvelle source de l’histoire, invocò la «creazione di archivi di film nazionali» che «raccolgano, descrivano e preservino questo nuovo genere di fonti…». Egli comprese molto bene tutti i problemi annessi e connessi, asserendo: «Non mi faccio illusione alcuna che il mio progetto possa realizzarsi in tempi brevi…». La storia gli diede ragione: i primi archivi filmici veri e propri non videro la luce che tre decenni più tardi. E non prima del 1938 Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania si associarono per formare una Federazione Internazionale di Archivi Filmici, l’International Federation of Film Archives – FIAF. La FIAF, che fino a ben oltre la Seconda guerra mondiale si era accresciuta di pochi membri, negli anni Sessanta e Settanta attrasse a sé un numero significativo di istituti dall’Europa Orientale e dal Terzo Mondo: una fiorente cultura cinematografica aveva nel frattempo portato all’organizzazione di archivi di immagini in movimento un po’ in tutto il mondo.
Spesso queste istituzioni si trovarono ad attraversare momenti non facili e si scontrarono anzitutto con una questione imprescindibile: cosa merita di essere preservato? Lo storico Nicholas Pronay fu estremamente chiaro in proposito: «I film e le televisioni documentano suoni ed aspetti di persone e luoghi; forniscono registrazioni sempre valide ed evocative…indipendentemente dalle qualità artistiche in esse eventualmente presenti…».
E chi si dovrebbe occupare di tale opera di preservazione? Nel 1996 annotò icasticamente Winston Tabb – in seguito divenuto bibliotecario alla Library of Congress – «Quali sono i problemi tecnici relativi alla conservazione? Come affrontarli? E dove reperire le risorse necessarie a garantire tutto questo?». Le straordinarie innovazioni tecnologiche costantemente in atto determinano che questioni quali l’accesso, i finanziamenti e lo stoccaggio dei materiali debbano essere soggetti ad un continuo riesame.
Consideriamo l’accesso, a titolo di esempio. Nei primi anni Novanta, Robert Roseau – direttore degli archivi filmico e televisivo dell’Università della California, a Los Angeles – osservava che alcuni negozi di audiovisivi «posseggono verosimilmente più titoli rispetto a certi archivi». Oggigiorno sul mercato sono disponibili DVD e Blue-Rayche offrono contenuti “extra” spesso raccolti da archivi diversi. Canali televisivi quali American Classics e Turner Classic Movies, al pari di offerte periodiche di film meno recenti su svariati canali premium – ora satellitari, analogici e via cavo fino a qualche anno fa – hanno trasformato i nostri schermi televisivi casalinghi in una più che confortevole cineteca, alla quale, grazie anche alla riproduzione in differita, si può avere accesso quando ci è più comodo. Internet è divenuto fondamentale ai fini della divulgazione e fruizione di materiali meno validi da un punto di vista commerciale, dando alle istituzioni anche l’opportunità di mettere a disposizione il posseduto in modo semplice ed economico, e anche di offrire link che conducono ad un utilizzo più tradizionale delle risorse, mediante database ricercabili e possibilità di ordinare i titoli desiderati.
Gli enormi progressi tecnologici, l’aumento esponenziale della quantità di fonti, l’incessante lievitare dei costi, le crescenti limitazioni di carattere pubblico e privato e in materia di copyright – tutto questo deve essere attentamente vagliato più e più volte da chi gestiscegli archivi. Per concludere rimanendo in ambito cinematografico, il regista Stanley Kubric una volta ebbe ad affermare: «dibattere vivacemente su un problema può creare l’illusione consolante che la questione sia stata studiata a fondo ed affrontata». Le considerazioni elencate in questa sede vogliono solamente fornire alcuni spunti di riflessione, senz’altro meritevoli di ulteriori e più sostanziosi approfondimenti.