Uno dei pilastri di riferimento metodologico per gli archivisti è l’idea del vincolo che lega fra loro i documenti di un fascicolo, di una serie, di un fondo. Non sempre questo legame necessario e così importante per dare pieno significato anche al singolo documento che si colloca all’interno della catena documentaria è tenuto del tutto presente dai ricercatori, ancora talvolta legati (malgrado lo scorrere del tempo e l’approfondimento dell’approccio storiografico) alla ricerca del documento rivelatore e tale da cambiare il corso della storia.

Il Il volume di Giorgio Fabre, con la collaborazione di Annalisa Capristo, analizza invece le vicende della costruzione e realizzazione del meccanismo razzista del regime fascista attraverso l’analisi di intere serie, quasi dell’intero fondo documentario, del Ministero dell’interno a partire dagli anni anche precedenti al 1938 e fino al 1945, dall’elaborazione delle leggi antisemite fino alla Repubblica sociale. Le fonti del ministero sono incrociate con altre, quelle degli Esteri, quelle della Corte dei Conti, quelle della Presidenza, del Consiglio di Stato, le fonti tedesche, le carte della Santa Sede, le fonti private, incluse quelle dell’Unione delle Comunità ebraiche, del Centro di documentazione ebraica contemporanea e molto altro.

Una ricognizione accuratissima, con il ricorso anche ad una vasta bibliografia, che ha come esito quello di porre in luce non solo l’accuratezza del meccanismo persecutorio, sia per l’elaborazione normativa ma, soprattutto, per l’applicazione dei provvedimenti, individuarne i protagonisti, persone e uffici, ma di riconoscere una precisa scelta operativa da parte del duce nel perseguire la sua politica razzista.

Come è noto, Mussolini riservò a sé a lungo la carica di ministro dell’Interno, affidandolo poi a persona di sua assoluta fiducia, Buffarini Guidi, sia in veste di sottosegretario che di ministro in carica a Salò. Per rendere efficace la sua politica razzista Mussolini scelse di avvalersi di collaboratori appartenenti alla dirigenza del ministero (prefetti, viceprefetti, consiglieri) e di figure diverse di ambito accademico o provenienti da altri ministeri come la Giustizia. Questo apparato venne accuratamente “fidelizzato”, costituendo una “burocrazia che ordina”, per utilizzare le parole dello stesso Mussolini, e che “dovrebbe essere nostra”. Il meccanismo così costruito si rivelò estremamente funzionale ed efficiente, con il risultato che il vero braccio operativo del razzismo fascista non fu il PNF, utilizzato semmai come strumento propagandistico, ma proprio il Ministero dell’interno, con la sua Direzione generale demografia e razza, le sue commissioni, non ultima quella conosciuta con il nome di “Tribunale della razza”. Le carte testimoniano del diretto interessamento del duce alla creazione e alle vicende di questo meccanismo e della sua attività. Questa “dimensione ministeriale” del razzismo fascista, come la definisce lo stesso autore, non fu affatto estranea alla deportazione, esito ultimo delle decisioni prese in quegli uffici come appare ben chiaro da alcuni casi individuali riportati.

“In questo libro non si è partiti da una tesi storiografica, ma da una scoperta, quella dei decreti [della Corte dei Conti, n.d.r] frutto di una lunga ricerca documentaria”, scrive Fabre a p. 29 della sua introduzione. Una lunga ricerca che ha permesso di ricostruire e offrire al dibattito storiografico una nuova cornice interpretativa.

Giorgio Fabre, Il razzismo del duce. Mussolini dal ministero dell’Interno alla Repubblica sociale italiana, Roma, Carocci editore, 2021, pp.549.

Tags:

Vuoi lasciare un commento?