Al momento della dichiarazione di guerra del 10 giugno 1940, Cencetti, come tanti della sua generazione, corse ad arruolarsi. In una lettera, conservata nel suo fascicolo personale presso l’Archivio Centrale dello Stato, manifestò poi tutta la sua amarezza per essere stato in quell’occasione rifiutato dall’esercito.
Non è questo il luogo per riflettere sul rapporto di Cencetti con l’ideologia dei suoi tempi e col regime fascista, anche perché su questo e su altri temi della sua biografia è in corso di stampa un volume, curato dall’Archivio di Stato di Bologna in occasione dei 50 anni dalla morte (1970-2020). Quel che è certo è che da quella delusione scaturì di lì a poco una insperata fortuna per l’archivio bolognese, perché negli anni dell’emergenza bellica e in quelli immediatamente successivi, Cencetti contribuì in modo decisivo, prima a preservare un immenso patrimonio di memoria documentaria dal possibile annientamento e poi a recuperarlo alla sua piena e corretta valorizzazione. È una bella pagina della nostra storia, nota forse solo agli archivisti bolognesi, e neppure a tutti, e quindi merita di essere divulgata.
A raccontare la vicenda è il protagonista stesso, con la sua inconfondibile prosa limpida, di classica e sorvegliata eleganza, in due articoli pubblicati nel 1947-1948 sulla rivista ufficiale dell’amministrazione archivistica nazionale. Il racconto prende le mosse dall’estate 1943, quando i documenti giudicati più importanti fra quelli dell’archivio bolognese furono trasferiti dai sotterranei in cui erano stati prudenzialmente ricoverati ad una villa della campagna di Argelato. Già compiere quella scelta dovette costituire un piccolo dramma per il direttore dell’epoca, Fulvio Mascelli, e per il suo più stretto collaboratore, il primo archivista Giorgio Cencetti, e tuttavia l’operazione valse a preservare un patrimonio preziosissimo dai danni provocati dal bombardamento del 29 gennaio 1944, che rase al suolo il contiguo palazzo dell’Archiginnasio. Scamparono così alla distruzione la Camera actorum, cioè l’archivio dell’antico comune, gli archivi del Senato e dell’Università e più di 9.000 unità archivistiche dei conventi soppressi: in pratica tutte le fonti disponibili per la storia di Bologna precomunale e le principali per la storia dell’età comunale e pontificia e per la storia dello Studium. Scamparono sì, ma dovettero poi affrontare pericoli per loro altrettanto gravi, quando la pianura bolognese fu attraversata dalle truppe tedesche in ritirata.
Nell’autunno 1944 la villa che ospitava l’archivio fu occupata da militari tedeschi. Da qui inizia la parte più avventurosa e drammatica del racconto di Cencetti: buste di pergamene, mazzi, registri furono accatastati alla meglio in fienili e sottotetti, per preservarli dal prevedibile scempio, ma per alcuni di loro non ci fu scampo. Piatti di legno e carte furono utilizzati per accendere il fuoco, il cuoio di antiche legature strappato e asportato, di alcuni volumi si perse ogni traccia. Interessante invece il destino di un mazzetto di pergamene, che furono riconosciute e recuperate mesi dopo in una libreria antiquaria del centro di Bologna: il libraio le aveva trovate presso un negoziante della periferia, che le aveva avute da soldati tedeschi di passaggio in cambio di due bottiglie di cognac. Quei soldati avevano con sé molte altre pergamene, raccontò poi il negoziante, documenti che evidentemente presero la via della Germania.
A quel gruppo appartenevano forse quattro pergamene dell’abbazia di S. Lucia di Roffeno, ritrovate fortunosamente sui binari della stazione di Schwerin nel 1950 e consegnate all’Archivio di Stato del Land Meclemburgo-Pomerania. Riconosciute in tempi recenti nel loro contenuto, sono state solennemente riconsegnate nel dicembre 2004 dall’ambasciatore tedesco al direttore dell’Archivio di Stato di Bologna. Questo esito della vicenda, parzialissimo e assolutamente eccezionale, avrebbe certamente fatto piacere a Cencetti, che non seppe mai del ritrovamento del 1950. Ma torniamo alla sua vivace narrazione. Vista la situazione della villa, nel gennaio 1945 si decise per il ritorno degli archivi a Bologna. Prima però si dovettero recuperare i documenti, rovistando fra i mucchi di paglia del fienile, o peggio pescando nelle pozzanghere provocate dal filtrare della neve dal tetto danneggiato. Poi, nel corso di ventuno viaggi su sconquassati autocarri a metano, gli unici disponibili allora, percorrendo strade dissestate ed evitando per quanto possibile bombe e mitragliamenti aerei, gli archivi bolognesi tornarono in città e furono collocati in grossi mucchi nei depositi del Palazzo dei Celestini, che nel frattempo era stato destinato a nuova sede dell’Archivio di Stato. Durante queste fasi delle attività di salvataggio del patrimonio archivistico e subito dopo, Cencetti ebbe l’appoggio decisivo di due colleghi stranieri, Wolfgang Hagemann, dell’Istituto storico germanico di Roma, che lo aiutò a trovare i mezzi di trasporto nel gennaio 1945, e l’archivista americano H. Bell, allora maggiore dell’esercito, fra i primi ad entrare con le truppe di liberazione a Bologna, il 21 aprile 1945, e subito ospitato dall’Archivio di Stato e coinvolto nelle operazioni. Cencetti ricorda con emozione, nel suo scritto, quei due studiosi di alto livello, separati dalla guerra ma accomunati nell’obiettivo di salvare dalla devastazione un grande patrimonio culturale.
Terminato il conflitto, iniziò un immane lavoro di riordinamento di quel materiale, al riparo finalmente da manomissioni e dispersioni, ma ridotto a un ammasso caotico di carta e pergamena. Anche questa è una storia che merita di essere conosciuta e studiata, perché Cencetti si trovò di fronte allora problemi archivistici enormi e li trasformò, come sapeva fare benissimo, in una sfida che divenne una grande esperienza professionale, raccontata anni dopo dal suo allievo Gianfranco Orlandelli. Le unità archivistiche rimaste integre o facilmente integrabili furono rapidamente riconosciute ed assegnate alle partizioni delineate, alle origini dell’istituto, da Carlo Malagola: Comune, Signoria, Governo pontificio, enti autonomi. Alla fine del 1947 questa fase si era già conclusa, restituendo agli scaffali e alla consultazione circa 22.000 unità archivistiche disposte in 3.000 metri lineari.
Rimaneva da compiere il lavoro più difficile e delicato: 700 e più mazzi miscellanei di pergamene disperse per il disfacimento delle unità originali e messe insieme alla meglio, nell’urgenza di caricarle sui carri adibiti al loro trasporto. Nel 1948, quando Cencetti scriveva, il lavoro ovviamente era ancora in corso e non era possibile prevedere quando potesse concludersi, dovendo fra l’altro conciliarsi con la ripresa delle attività ordinarie dell’Istituto e la sua riapertura al pubblico. Ma i metodi messi in campo per quella impresa, e descritti rapidamente da Cencetti, sono di grande interesse, e lo è soprattutto lo spirito che la animava, evocato, si diceva, anni dopo da Gianfranco Orlandelli, che nel necrologio del maestro ricordava quella fase “eroica” del loro lavoro: un pomeriggio dell’estate del 1948, nell’archivio deserto «si lavorava insieme attendendo al riordinamento delle carte che erano andate in disordine per eventi bellici: mucchi enormi di materiale alla rinfusa, la crema degli archivi bolognesi, un lavoro veramente massacrante, da rompere le ossa; si stava entrambi in maniche di camicia, io intento a pescar roba e a chiedere, lui a guardare ed a dire di cosa si trattasse. Cade il discorso sull’atlante dello Steffens…».
Quella infernale palude di carta e pergamena divenne così, per ispirazione di Cencetti, una meravigliosa palestra in cui il paleografo e l’archivista potevano mettere alla prova sul campo, e che campo!, la migliore tradizione dottrinale, che da Traube, Löwe, Schiaparelli e così via confluiva in quel mitico atlante, già per il maestro «compagno fedele e magico tappeto volante che lo trasportava indietro nel tempo», continua Orlandelli, e ora per l’allievo soccorso insperato in quel lavoro improbo. E non era solo questione di tipologia grafica e cronologia: nell’insegnamento di Cencetti, come sempre e a maggior ragione in quella situazione, il mutare delle scritture e delle parole doveva servire a cogliere la vita della lingua e quindi delle comunità umane, perché l’oggetto della ricerca, per il paleografo, come per il linguista e lo storico e in effetti per ogni studioso, rimaneva sempre il medesimo. Da quella esperienza ad esempio, conclude Orlandelli, Cencetti trasse lo spunto per i suoi Vecchi e nuovi orientamenti nello studio della paleografia, che uscì appunto nel 1948.
Negli ultimi anni, i tecnicismi dominanti inducono molti di noi, forse a ragione, a guardare con sospetto o sufficienza approcci troppo idealistici alle nostre discipline. Resta il fatto, difficile da confutare, che in momenti estremi e drammatici, e la guerra lo è al massimo grado, quando si è costretti a confrontarsi con gli abissi della natura umana, magari attraverso lo studio della memoria documentaria, non sarà la tecnologia a soccorrerci, ma forse la voce di un maestro.
Per saperne di più
Giorgio Cencetti, Danni di guerra subiti dagli Archivi di Stato. Archivio di Stato di Bologna, in «Notizie degli Archivi di Stato», 4-7, 1944-1947
Giorgio Cencetti, I lavori di riordinamento dell’Archivio di Stato di Bologna, in «Notizie degli Archivi di Stato», 8, 1948
Gianfranco Orlandelli, Giorgio Cencetti, in «Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le province di Romagna», 21, 1970, pp. 239-242
Giorgio Cencetti e l’Archivio di Stato di Bologna