Per introdurre le parole virus e virale vorremmo ricordare Adriano Ossicini, nato a Roma nel 1920 e recentemente scomparso (2019), che trasformò un agente patogeno in una barriera contro la morte.

René Magritte, Les amants, 1928, National Gallery of Australia di Canberra.

Psichiatra e antifascista, il medico salvò alcuni ebrei romani dal rastrellamento del Ghetto del 1943, insieme con il primario dell’ospedale Fatebenefratelli, Giovanni Borromeo, e con altri colleghi.

L’ospedale Fatebenefratelli si trova a Roma, sull’isola Tiberina, a due passi dalla Sinagoga. Il 16 ottobre del 1943, Adriano Ossicini, indossando il camice bianco con l’intento di evitare controlli, uscì dall’ospedale e provò ad indirizzarvi alcune persone in fuga. Per confondere il nemico, queste persone, pur essendo sane, naturalmente, vennero ricoverate in mezzo agli altri ammalati. Con somma intelligenza ed un estro formidabile, Adriano Ossicini inventò il contagiosissimo morbo K (ispirandosi alle iniziali dei generali nazisti Kesselring e Kappler) e lo inserì nei finti documenti sanitari dei neopazienti. I tedeschi si misero a controllare le cartelle cliniche con la speranza di individuare i fuggitivi. Da un’attenta analisi emergeva che molti degenti avevano contratto una grave malattia, classificata appunto come morbo K. I nazisti, informati su quanto fosse rischioso entrare in contatto con pazienti colpiti da quel virus e temendo per la propria salute, abbandonarono la ricerca all’interno dell’ospedale.

Nell’attuale battaglia contro un microscopico quanto sleale nemico, preoccupati e spaventati, cerchiamo risposte nella scienza per riuscire a vivere il presente, ci affidiamo alla matematica per poter immaginare il futuro, mentre consegniamo chi si ammala alla medicina, consapevoli del fatto che in alcuni casi la lotta tra l’organismo e il virus è impari. Non tutti sono infatti equipaggiati allo stesso modo, non tutti hanno a disposizione un valido esercito di difese immunitarie. I più fragili non riescono nemmeno ad ingaggiarla questa disputa, fiaccati come sono dall’età o dalle malattie, e il più delle volte imboccano una strada senza uscita.

Le parole non curano, non in questo caso almeno, tuttavia possono aiutare a comprendere meglio la realtà che ci circonda. Ogni sforzo fatto nella direzione della razionalità e della conoscenza può aiutarci, soprattutto oggi, a vivere con maggiore serenità. Stiamo parlando di virus, cioè di «frammenti di cattive notizie avvolti in una proteina» (a piece of bad news wrapped up in a protein), per dirla con le parole del biologo e zoologo britannico Sir Peter Medawar (1915-1987), premio Nobel per la medicina nel 1960.

La parola virus deriva dal latino vīrus, che in principio designava il ‘succo delle piante’, poi il ‘veleno’ degli animali. Se in passato la parola si riferiva genericamente ad un agente patogeno, oggi è un «termine con cui si designa un gruppo di organismi, di natura non cellulare e di dimensioni submicroscopiche, incapaci di un metabolismo autonomo e perciò caratterizzati dalla vita parassitaria endocellulare obbligata, costituiti da un acido nucleico (genoma) rivestito da un involucro proteico (capside)». (Virus, Vocabolario Treccani.it). Un nanoscopico opportunista la cui sopravvivenza dipende dall’organismo che aggredisce e di cui tuttavia non deve approfittare troppo, altrimenti è destinato a soccombere insieme ad esso. Sembra questo il motivo per cui il virus dell’ebola, avendo un tasso di letalità molto elevato, non si sia propagato a dismisura: uccide l’ospite con eccessiva velocità.

Sfogliando il nuovo Dizionario etimologico della lingua italiana (Manlio Cortelazzo e Paolo Zolli – seconda edizione in volume unico a cura di Manlio Cortelazzo e Michele Cortelazzo), si apprende che virus entra nella terminologia scientifica internazionale grazie all’uso che ne fece il padre della chirurgia moderna, Ambroise Paré (1517-1590). Chirurgo di grandi sovrani francesi, egli impiegò la parola virus per indicare il ‘pus di una piaga contagioso e corrosivo’. In italiano, il termine virus è attestato a partire dal 1853, nel titolo dell’opera di Giuseppe Lodovico Ponza, L’inoculazione del virus pneumonico giudicata nel Belgio e nell’Olanda.

Nella raccolta di racconti Per voce sola (1991), Susanna Tamaro suggerisce l’immagine di un contagio quasi mitologico. «Molti anni più tardi, quando tutto era successo, ho pensato: Dio non c’entra niente, forse neppure c’è; se anche esiste è impegnato da qualche altra parte. Non è lui che soffia i virus nelle teste, non è lui che le sbilancia ma la sua controparte». Dacia Maraini, nel libro vincitore del premio Strega Buio (1999), ricorre a virus per costruire una similitudine molto efficace e, allo stesso tempo, estremamente drammatica: «Quando i figli prendono una strada storta, c’è poco da fare, c’è poco da educare, si odiano e si calunniano a vicenda, è come un virus, che si infila nelle famiglie e fa strage di innocenti».

Passando dalla letteratura all’universo della psiche umana, il lacaniano Massimo Recalcati ci offre più di uno spunto di riflessione sulle interpretazioni psicoanalitiche del virus. «Nel tempo più originario della vita psichica l’estraneo e l’ostile coincidono. Il terrore del contatto coincide con il terrore del contagio. In primo piano emerge una angoscia primaria di intrusione […]. Il rischio dell’epidemia e del contagio riflette questa angoscia primaria di intrusione; il virus, da questo punto di vista, è l’incarnazione più temibile dello straniero perché non ha volto, non è visibile, non ha corpo. […] i regimi dittatoriali hanno sempre utilizzato metafore mediche per definire il nemico come virus, infezione, batterio. In primis quello nazista; Hitler si è proposto come medico della Grande Germania incaricato di debellare il suo corpo dai virus degli ebrei, dei comunisti, dei liberali, degli omosessuali» (Come si diffonde il virus del razzismo, La Repubblica, 4 febbraio 2020).

L’uso figurato di virus richiama l’aspetto patologico del microrganismo e la sua propensione a diffondersi. Così, quando ci si riferisce a un affetto, a una passione o, in generale, a sentimenti e istinti umani incontenibili e smisurati, virus indica l’intensità e quasi il grado patologico di una determinata manifestazione. «Il virus del gap, il gioco d’azzardo patologico, si diffonde in bar, caffè, ristoranti, fast-food, osterie, trattorie, sale giochi, tabaccherie, alberghi, circoli privati, persino stabilimenti balneari: ovunque ci sia una slot machine. In Italia si calcola che il gioco d’azzardo riguardi tra l’1,27% e il 3,8 % della popolazione. Ma forse fa più impressione tradurre: sono tra 770mila e 2,3 milioni di persone. I giocatori d’azzardo patologici oscillano tra le 300mila e il milione e mezzo» (I bar sono un casinò di Paola Bosaro, larena.it, 25 febbraio 2016).

Mentre la parola virus è connotata in modo più o meno negativo anche negli usi figurati, l’aggettivo virale – ricavato in epoca moderna dalla stessa radice di virus per coprire gli stessi àmbiti semantici nei campi biologico e medico – ha una storia recente diversa. All’inizio, virale segue virus. Questo passo, tratto dal romanzo La miglior vita (1977) di Fulvio Tomizza, ci riporta in un’Italia di frontiera, tra l’Istria e Trieste, in un tempo in cui l’epidemia, allora influenzale, correva tra le case spoglie, la povertà post-bellica, accompagnata da una rabbia sommessa e rassegnata, in un quadro sociale e mentale che è difficile oggi immaginare (allora la malattia e la morte parlavano una lingua diversa): «Era quello il terzo inverno consecutivo saltato dalle provvidenziali gelate che spaccano la terra distruggendo le larve e risanando la stessa aria che respiriamo. Scoppiò e si diffuse rapida un’influenza virale che in altri tempi si sarebbe chiamata pestilenza. I medicinali giunti con un pullmino dall’ospedale di Umago e distribuiti gratuitamente, non salvarono tutti i colpiti, che furono almeno uno per famiglia».

Successivamente, agli inizi degli anni Settanta del Novecento, virus e virale camminano ancora a braccetto insieme nella lingua dell’informatica, quando, tramite l’inglese viral, l’aggettivo assume il significato aggiuntivo di ‘relativo a virus informatico’, onde corrispondere alla nuova accezione di virus ‘programma, creato a scopi di sabotaggio o vandalismo che si trasmette tramite supporti informatici o reti telematiche’ (s.v. virus nello Zingarelli 2020). Il bivio nel destino semantico delle due parole si apre nel 1989, quando, secondo l’Oxford English Dictionary, viral acquisisce un altro significato, traslandosi nell’àmbito del marketing: per analogia con i modi e gli effetti della diffusione dei virus informatici, si parla di viral marketing e di viral diffusion (poi semiadattati in marketing virale e diffusione virale). Da qui è breve il passo che porta viral e virale ad assumere il significato di ‘capace di diffondersi estesamente e rapidamente; diffusissimo’.

Negli ultimi anni, in un clima di euforia neo-mediale, virale dilaga (in una sorta di pandemia lessicale), insieme ai suoi parenti viralizzare, viralizzato, viralizzazione. Rimbalzando dai giornali alla pubblicità, dalle mode giovanili al lessico di chi vuole essere smart, virale congiura al tormentone, perché tutto e a ogni piè sospinto può essere virale: post, tweet, video, foto, selfie, scatto, notizia e reazione alla notizia, scena, battuta, barzelletta, meme, GIF, post, tweet, o, anche, più in generale, fenomeno, passaparola; per metonimia o sineddoche, monologo, lettera, appello, lirica, balletto, successo, danno, esultanza… A proposito di esultanza virale, purtroppo si può pensare che una qualche congiuntura, soltanto apparentemente disumana, in questi mesi di malattia, dolore, sofferenza e paura abbia ricacciato in un angolo l’effervescenza verbale di tante, spesso effimere, gioie virali. Costringendo l’aggettivo a tornare sui propri passi, retrocedendo dal virtuale al reale, uscendo dalla metafora per rientrare nei corpi.

Per saperne di più

Morbo K, quella malattia inventata per salvare gli ebrei dalle persecuzioni nazifasciste a Roma, Ariela Piattelli, lastampa.it, 21 giugno 2016
Piccole note sparse a margine di epidemie virali, di Lisa Vozza, Speciale Coronavirus, Aula di scienze, Zanichelli.it
La salute vien ricercando: tra influenze, virus e pandemie, a cura di Vera Gheno, Zanichelli.it
Alla fine un virus-Rna ci seppellirà, di Arnaldo Benini, ilsole24ore.com, 9 giugno 2013
Le citazioni da Tamaro, Maraini, Tomizza sono tratte dal Primo tesoro della lingua letteraria italiana del Novecento, a cura di Tullio De Mauro, Torino, UTET – Fondazione Maria e Goffredo Bellonci, 2007.

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