Lo scorso 17 ottobre, presso la sala convegni dell’Archivio storico della Presidenza della Repubblica, si è svolta la giornata di studio incentrata sul tema del rapporto tra l’attività di descrizione del patrimonio culturale e la sua digitalizzazione.

Ludovico Muratori, modello di erudito settecentesco

Ludovico Antonio Muratori (Vignola, 21 ottobre 1672 – Modena, 23 gennaio 1750) è stato un presbitero, storico, scrittore, numismatico e bibliotecario italiano, incarnazione dell’erudito settecentesco a tutto campo: un modello oggi (e da tempo) superato, a fronte della professionalizzazione e settorializzazione dell’intellettuale e delle sue competenze

L’Archivio storico, alla luce della rilevanza dei progetti che ha attualmente in corso e la Scuola di specializzazione in beni archivistici e librari dell’Università “La Sapienza”, dato il suo ruolo di istituto di formazione e di ricerca, hanno manifestato adesione e vivo interesse per l’iniziativa promossa nella primavera 2016 dal Lincoln College (Oxford University) in collaborazione con il Consorzio europeo delle biblioteche di ricerca (CERL), il cui scopo è affrontare la questione della necessaria centralità che dovrebbero avere le descrizioni degli ‘oggetti culturali’ nella rappresentazione digitale degli stessi.

All’incontro hanno preso parte numerosi professionisti tra bibliotecari, archivisti e documentalisti oltre ai direttori degli istituti di cultura che più sono coinvolti nei progetti di descrizione e digitalizzazione del patrimonio culturale – Marina Giannetto (Sovrintendente Archivio storico della Presidenza della Repubblica), Giovanni Paoloni (Scuola di Specializzazione in Beni Archivistici e Librari di Roma), Simonetta Buttò (Istituto Centrale per il Catalogo Unico – ICCU), Laura Moro (Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione – ICCD), Stefano Vitali (Istituto Centrale per gli Archivi – ICAR), Stephanie Ruehle (Göttingen State and University Library), Cristina Dondi (Lincoln College di Oxford) – i quali, attraverso la condivisione di temi ed esperienze e attraverso il dibattito conclusivo previsto dall’incontro, hanno messo in luce spunti di riflessione sui quali fondare possibili ripensamenti per uno sviluppo della materia.

La riflessione di partenza, come emerso dalla presentazione del direttore della Scuola di Specializzazione in Beni Archivistici e Librari, Giovanni Paoloni, è la constatazione che negli ultimi anni, le attività di digitalizzazione, favorite soprattutto dalla progressiva diffusione delle risorse tecnologiche, sono diventate sempre più frequenti e sempre più grande è diventata la mole dei dati accessibili in rete, ma ciò nonostante, permane un senso generale di incompiutezza, originato dal fatto che le attività di digitalizzazione, spesso, hanno sovrastato il senso stesso dell’attività, facendo perdere di vista l’obiettivo principale: l’integrazione completa tra le descrizioni degli oggetti culturali e le rispettive digitalizzazioni. Ad oggi, manca un indirizzo comune verso il quale orientare le attività degli istituti, i quali si trovano sempre più spaesati nelle attività di sistematizzazione e di digitalizzazione.

Le aree critiche riscontrate nell’integrazione delle descrizioni del patrimonio culturale che circolano in rete, sono due: l’integrazione e l’uniformazione degli elementi descrittivi che vengono prodotti, per tipologie di patrimonio culturale differenti, da istituzioni di natura diversa; la modalità di codifica dell’architettura dei dati catalografici che vengono prodotti. La presenza del patrimonio culturale in rete non è altro che una rappresentazione di quegli oggetti culturali descritti e i dati di corredo usati per descrivere i beni culturali, i metadati, sono spesso soggetti a manipolazioni e modifiche continue, proprio per la loro intangibilità. Troppo spesso al termine metadato viene affidata una funzione di carattere esclusivamente ancillare, ponendo l’attività di digitalizzazione in secondo piano rispetto all’attività di descrizione, con l’inevitabile conseguenza di disperdere gli oggetti disponibili in rete.

Un esempio concreto che conferma la generale tendenza alla frammentazione degli oggetti digitali in rete proviene proprio dal settore biblioteche. Come ha sottolineato Simonetta Buttò (direttore dell’ICCU), negli ultimi vent’anni le campagne di digitalizzazione sono state moltissime e altrettante sono state le banche dati messe a disposizione nelle quali sono state raccolte vaste quantità di oggetti digitali che risultano, molto spesso, scarsamente visibili e rintracciabili.
Una buona soluzione al problema potrebbe essere la riconsiderazione delle banche dati esistenti – Europeana, Culturitalia etc. etc. – nella prospettiva di farne nodi di raccolta e diffusione del cultural heritage, capaci di immettere il patrimonio raccolto in flussi culturali più ampi legati, magari, alla creatività.

Le risorse tecnologiche pongono tuttavia un altro tipo di riflessione che ha origine all’interno della professione stessa o meglio, dalla crisi delle professioni dei beni culturali, come ha fatto notare Stefano Vitali, direttore dell’ICAR. Negli archivi infatti, come è stato puntualmente delineato nell’intervento, la riflessione sulla storicità della professione è iniziata da tempo, tra i secc. XVIII e XIX, e cioè quando iniziano a formarsi gli Stati nazionali e si consolidano quegli strumenti culturali fondamentali alla rivendicazione, promozione e diffusione delle identità nazionali. Nelle pratiche conservative del passato la frammentazione tra le componenti differenti del patrimonio esisteva, ma alla base sopravviveva un principio di continuità. Basti pensare agli inventari dei beni compilati dai commissari napoleonici a seguito delle soppressioni conventuali, nei quali si nota come l’intero patrimonio sia considerato un bene unico e difficilmente separabile. Analogamente, anche tra le professioni svolte da chi si occupava di censire, descrivere e ordinare i diversi patrimoni culturali, la differenza non era così netta come oggi.
Un tempo c’era l’erudito, profondo conoscitore di molte sfere dello scibile, capace di dominare la storia e la natura, come ad esempio Ludovico Muratori. Più che una professione, quella dell’erudito era una vera e propria attitudine culturale che, con l’affermarsi degli Stati nazionali, lascerà sempre più spazio alle specializzazioni professionali e quindi ai professionisti del settore.

Dunque, al fine di progettare strumenti sempre più capaci di soddisfare l’esigenza di una descrizione integrata del patrimonio, sarebbe necessario recuperare quell’idea di continuità e legame che un singolo bene, conservato in un istituto, può intrecciare con i beni conservati da altri istituti. Alcuni recenti sistemi, come Metafad e Abacvm, testimoniano la sensazione, fortemente percepita all’interno degli istituti che hanno promosso questi strumenti, dell’eccessiva separazione, a tratti frenetica, dei beni culturali, una separazione che finisce per depotenziare le possibilità di quegli stessi istituti. L’integrazione del patrimonio potrebbe dunque essere ottenuta non sulla base di elementi descrittivi e maschere di interrogazione comuni, come è stato fatto in un primo momento, quanto sulla base degli elementi comuni alle diverse componenti del patrimonio (le persone, i luoghi, i periodo storici…) che determinano il contesto all’interno del quale sono vissuti quegli oggetti culturali che solo successivamente sono stati separati per soddisfare esigenze di sistematizzazione e classificazione.

Dal dibattito conclusivo, moderato dalla ricercatrice Cristina Dondi del Lincoln College di Oxford sono emerse delle riflessioni comuni sulle quali fondare alcuni necessari ripensamenti. Tra tutti gli spunti emersi, la soluzione di creare una condivisione del contesto è stata generalmente approvata poiché non solo si profila come la proposta più concreta allo stato attuale, ma anche perché costituisce una valida proposta in vista di una gestione sempre più integrata tra dati e digitalizzazione dei beni culturali. Tale indicazione potrebbe tradursi concretamente in una pratica lavorativa che preveda la stesura di tracciati e schede con parti descrittive comuni e parti distinte e specifiche per le differenti tipologie di materiale, redatte in conformità agli standard propri delle diverse discipline.
Questo eviterebbe il rischio di una duplicazione delle informazioni e migliorerebbe, in termini di efficacia, l’esperienza di consultazione, il fine ultimo di ogni attività di descrizione e digitalizzazione.

 

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