Quando c’è crisi, quando c’è trauma, scatta la resilienza. Parola chiave di questa crisi pandemica, parola chiave del discorso pubblico da quando le crisi di sistema, con maggiore frequenza, spazzano i continenti abitati dai ricchi e, soprattutto, dai meno ricchi, i meno forti, i meno protetti, i più fragili.
«Questo concetto, se applicato alla condizione umana, potrebbe sintetizzare il vecchio proverbio siciliano “chinate juncu, ca passa la china” (chinati, giunco, che passa la piena), che invita a sopportare i momenti difficili abbassandosi con strategica umiltà, in attesa di rialzarsi con l’arrivo di tempi migliori». (Nicola Boccianti). O, per dirla in altro modo, «lo spirito di resilienza rappresenta la capacità di sopravvivere al trauma senza soccombervi e anzi di reagire a esso con spirito di adattamento, ironia ed elasticità mentale» (Simona Cresti). Questa è l’accezione che ha assunto la parola nella lingua comune, usata con larghezza nella conversazione colta o pseudo-colta dilatando leggermente lo stretto nucleo semantico individuato dalla scienza psicologica.
Accezione che certamente è memore di quella propria della fisica, in cui resilienza indica la «capacità di un materiale di resistere ad urti improvvisi senza spezzarsi o di resistere a sollecitazioni che ne minano l’equilibrio» (Lo Zingarelli 2020). Memore, ma con una profonda differenza concettuale: resilienza non è sinonimo di resistenza, si presenta viceversa come un combinato disposto di adattamento + reazione: «Non si era preoccupato, non si era spaventato, non si era vergognato, non si era spazientito, non aveva posto condizioni: si era abbandonato, piuttosto, a questa rivoluzione dimostrando una plasticità e una resilienza che in futuro, nei momenti duri, l’avrebbero aiutato a sopravvivere». Così Marco Carrera, protagonista del romanzo di Sandro Veronesi, vincitore del premio Strega 2020, Il colibrì, animale-metafora dell’atteggiamento che Carrera, messo tante volte a dura prova da situazioni traumatiche e lutti, tiene (come gli scrive l’amata Luisa) «perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d’ali al secondo per rimanere dove già sei. Sei formidabile, in questo. Riesci a fermarti nel mondo e nel tempo, riesci a fermare il mondo e il tempo intorno a te, certe volte riesci anche a risalirlo, il tempo, e a ritrovare quello perduto, così come il colibrì è capace di volare all’indietro». Per dirla con Marco Belpoliti, «la persona resiliente non è un supereroe, ma è dotata di qualità che gli permettono di affrontare rotture, depressioni, abbandoni».
Una qualità, una postura che sembra avere degli effetti pratici e misurabili, oltre che una sua propria densità morale, almeno a rileggere le dichiarazioni rese al Senato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte a proposito dell’approvazione del Recovery Fund: «Ringrazio anche gli italiani perché il loro comportamento e sostegno è iniziato con i primi giorni della pandemia. La prova di resilienza, dove primi fra tutti in Europa, abbiamo dato senso di comunità, ha rafforzato la posizione e autorevolezza del governo italiano al tavolo delle grandi decisioni. E abbiamo avuto un esito migliore dell’iniziale proposta per l’ammontare complessivo dei fondi destinati al nostro Paese».
Se la capacità di adattamento-reazione viene imbracciata da una comunità, nelle sue varie espressioni e stratificazioni, allora succede che parole d’ordine come #iorestoacasa e #laculturanonsiferma escano dalla genericità dei buoni propositi e diano vita a un esempio concreto di risorse proprie sfruttate in modo da affrontare l’ostacolo senza evitarlo: si pensi al mondo degli archivi, con le decine e decine di eventi “virtuali” che, in epoca di clausura totale e parziale dei pubblici uffici – impegnati in varie forme di lavoro agile -, hanno tenuto vivo il senso di una missione di “apertura” dei contenuti e dei dati memorizzati nei repository digitali (#IoRestoaCasa: il contributo della DGA).
Certo la resilienza è possibile se si fa chiarezza sul trauma, cioè sull’evento psicologico che turba in profondità il soggetto e incide sulla sua personalità. Lo psicoanalista David Meghnagi è attento proprio al rischio del «diniego interpretativo, un meccanismo sempre presente quando si subisce un trauma». Un esempio banale di diniego: quando si è sentito dire (e si sente ancor oggi) che “tanto il Covid uccide solo gli anziani”. Ora, dice Meghnagi, nonostante la durezza della pandemia, il sistema regge. «Però scricchiola per la difficoltà a fronteggiare l’angoscia di un futuro incerto, potenzialmente carico di conflitti che al solo pensarci fanno paura. E le conseguenze del trauma sono gigantesche perché riguardano anche il futuro». Che fare, dunque? «L’unico modo per elaborare il trauma è farlo emergere, per essere elaborato». «La resilienza è la nostra capacità di reagire attingendo alle energie di cui disponiamo».
Resilienza è parola divenuta popolare soprattutto a partire dall’inizio del nuovo millennio nella nostra lingua molto mediatizzata (informazione e intrattenimento nell’universo inflazionario e inflazionato dei nuovi media), tanto da essere percepita comunemente, quasi per riflesso pavloviano, come un calco dell’inglese resilience. In realtà, anche se è vero che da secoli il sostantivo resilience e l’aggettivo resilient sono usati in inglese a partire dal latino resilientia e dal verbo resilire, recuperandone, in origine, il senso etimologico di ‘tornare indietro con un salto’ (re+salire) e quindi, per traslato, ‘ritirarsi, contrarsi’, la parola resilienza, un po’ vaga nei contorni semantici e ancora poco tecnicizzata a causa dell’atmosfera così umanistica e libresca della nostra cultura nazionale, è documentata in italiano nel Settecento, definita “termine de’ filosofi” col significato di “regresso, o ritorno del corpo, che percuote l’altro” (Gian Pietro Bergantini, Voci italiane d’autori approvati dalla Crusca, nel Vocabolario d’essa non registrate, Venezia 1745). Sempre in quel secolo, resilienza comincia a designare anche una proprietà interna ai corpi, in grado di respingere rimbalzando.
Ma pochi anni dopo, il grande filosofo ed economista Antonio Genovesi adopera l’aggettivo resiliente traslandolo nella sfera delle affezioni precoscienti, quasi in anticipazione dell’accezione tecnica che prenderà negli studi psicologici di due secoli dopo: «Quella forza deve essere non solo direttiva, ma coattiva altresì; perché la sola forza direttiva, per la nostra uguale ignoranza, per la ritrosia della nostra natura, e per la forza elastica e resiliente delle passioni, non basta per unirci e mantenerci concordi, almeno per lungo tempo» (Delle lezioni di commercio o sia d’economia civile, prima del 1769).
Se dalla fine dell’Ottocento fino agli anni Ottanta del Novecento resilienza e resiliente trovano poco spazio nell’italiano scritto, dobbiamo ammettere che a promuoverne negli ultimi decenni l’uso nei media italiani è proprio il “rinforzino” dell’uso più frequente e disinvolto di resilience e resilient in inglese, lingua franca d’Europa e delle comunità che contano e dettano gli stili di vita mondializzati. Resilienza si fa notare tra l’altro come termine dell’ecologia, indicante una comunità o un sistema ecologico in grado di tornare velocemente al suo stato iniziale, dopo essere stato sottoposto a una perturbazione; oppure come termine tessile, riferito alla proprietà di un tessuto di non strapparsi dopo essere stato fortemente deformato, riprendendo la forma originale.
Qualcosa a sfavore di resilienza e resiliente ci sarebbe da dire ma riguarda più che altro la percezione soggettiva che si tratti di parole modaiole. Nel gruppo Facebook della trasmissione di Radio 3 La lingua batte, il 4 agosto 2020 qualcuno posta: «Cosa pensate del termine ‘resilienza’? Io non lo amo particolarmente». A fronte di qualche, isolata, reazione neutra se non addirittura apprezzativa, c’è chi obietta: «La parola “resilienza” ebbe un boom immediatamente dopo il terremoto (parlo della mia città, L’Aquila). Si usava tantissimo, tanto che amici chiamarono “la resilienza ” la loro abitazione. Piaceva anche a me, ma poi ho imparato che non si adatta all’esperienza umana. Solo i metalli tornano uguali». Qualcuno amplifica il dissenso: «Non se ne può più: resilienza usiamolo per definire la proprietà dei metalli di (non a caso) resistere agli sforzi di torsione (se non ricordo male). E basta!!!!». A cogliere il vero motivo della ripulsa, ecco chi scrive che «Il problema non è la parola in sé, quanto piuttosto il fatto che a periodi certi vocaboli vadano di moda e le persone li usino a sproposito». Quest’ultima affermazione trova conferma, per esempio, ad apertura casuale di giornale, nella cronaca di un pre-partita di calcio: «Nella quasi sempre fatale Gelsenkirchen […] l’Inter seconda in campionato con 82 punti, dei lunghi coltelli verbali e delle tregue a tempo, vuole mettere in mostra la propria resilienza» (Matteo De Santis).
Proviamo allora a suggerire un piccolo contributo nel senso della chiarificazione terminologica. Ammesso che in resilienza si esprima una particolare “forza”, pensiamo al latino, che distingueva tra vis, la forza in movimento, suscettibile di agire in bene o in male (una forza attiva) e robur, la forza statica, che sostiene e resiste a una sollecitazione esterna (una forza passiva). Quale tipo di forza rappresenta la resilienza?
Per saperne di più
Nicola Boccianti, Resilienza, in Luigi Anania–Nicola Boccianti, Storie di volti e di parole, Roma, DeriveApprodi 2016, pp. 74-77
Simona Cresti, L’elasticità di resilienza, in accademiadellacrusca.it, 12 dicembre 2014
Marco Belpoliti, La resilienza come atto creativo: fare di più con meno, in dialoghisulluomo.it, 26 maggio 2018
Chiara Di Tommaso, Conte al Senato: “Forti e autorevoli in Europa grazie agli italiani, hanno dato prova di resilienza”, in vesuviolive.it, 22 luglio 2020
Ogni uomo è il suo abbraccio, colloquio con David Meghnagi di Wlodek Goldkorn, in «L’Espresso», 5 luglio 2020, pp. 74-77
Matteo De Santis, La prova Getafe. L’Inter e Conte a caccia di futuro in Europa, in «La Stampa», 5 agosto 2020, p. 27