“Carte di piombo” rappresenta la pubblicazione degli atti del convegno svoltosi nel novembre del 2020, promosso da ANAI, ACS e Archivio Flamigni, a cinque anni di distanza dalla promulgazione della Direttiva Renzi. È un fatto che la Direttiva Renzi, emessa su sollecitazione della comunità degli storici e delle associazioni dei familiari delle vittime, affermi un principio sacrosanto, ma non per questo meno innovativo nel contesto italiano: la tutela della riservatezza dello Stato non può incrinare le ragioni della ricerca storica e la memoria di chi perse la vita in episodi stragistici. Se ci si arrestasse a questo aspetto si rischierebbe però di fermarsi alla superficie del problema. In altre parole, per valorizzare le luci del provvedimento è necessario non tacerne le ombre. 

E le ombre si condensano in due grandi famiglie: quelle relative al provvedimento in sé, sia alla sua gestazione che alla sua applicazione, e quelle relative al contesto materiale in cui è inserito. Contesto che non è riducibile a un discorso di mera correttezza della sua applicazione, ma che chiama in causa il sistema archivistico in cui la Direttiva è calata. Qui, l’immagine della Direttiva come “cartina di tornasole” (è Vitali a usare questa metafora) dello stato degli archivi statali in Italia diventa davvero calzante.

La teorizzazione e l’applicazione del provvedimento: Un primo aspetto di criticità è concreto e lampante. In assenza di indicazioni precise, la scelta della documentazione da versare fu effettuata in autonomia dagli stessi uffici senza garanzia dell’effettiva completezza dei versamenti. Collegato a questo aspetto vi fu lo scarso coinvolgimento delle Commissioni di Sorveglianza, sia a livello centrale che periferico. In terzo luogo, la relativa vaghezza della Direttiva ha fatto sì che ogni ufficio applicasse in modo “personale” il provvedimento. L’enfasi sulla declassifica ha spinto alcuni a versare solo documenti classificati mentre la sfortunata dicitura “gli atti relativi ad alcuni dei più significativi eventi” ha sollecitato altri a consegnare solo la documentazione in cui fosse esplicitamente citato uno degli episodi oggetto della Direttiva.
L’esito è stato quello implicito nelle premesse fin qui ricordate. Il più delle volte si è assistito a versamenti di singola documentazione, peraltro spesso profondamente “obliterata” (vale a dire oscurata di informazioni ritenute sensibili), che ha smembrato in modo definitivo le serie archivistiche originarie. Si sono originate così tante “raccolte” archivistiche autonome e “raccolta” infatti è il nome che l’ACS, correttamente, ha dato alla documentazione versata in seguito alla Direttiva. Chiunque abbia masticato qualcosa di teoria archivistica ricorda che la differenza fra “raccolta” e “archivio” è qualcosa che si apprende alle prime lezioni in università. La decontestualizzazione archivistica ha funzionato da cortina fumogena di una pletora di carte che singolarmente dicono poco, per non dire niente.

Il contesto: Ragionando del provvedimento, una delle prime impressioni che si ha, e lo ripetono diversi dei contributi compresi nel volume, è che le modalità di declassifica e versamento della documentazione inerente le stragi siano simili a una scorciatoia o se si preferisce a una legislazione d’emergenza (Mineo parla di “provvedimento ad hoc”, mentre Andrea Giorgi afferma correttamente che se la normativa sui tempi dei versamenti e sulla consultabilità della documentazione venisse applicata correttamente non ci sarebbe stato bisogno di uno strumento come la Direttiva). Arrivati a questo punto la domanda da porsi non è soltanto “come è stata applicata la direttiva?”, ma anche e soprattutto “la Direttiva poteva essere applicata diversamente?”. E qui entra in gioco il contesto.
Ragioniamo per assurdo: se gli uffici versanti non avessero consegnato documenti isolati, ma serie integrali, cosa sarebbe successo? Sarebbe stato possibile e sostenibile per le attuali infrastrutture archivistiche sostenere le nuove acquisizioni? Penso di no. Per un complesso di problemi riconducibile a diversi nodi critici:

1) gli spazi > a oggi la gran parte degli Archivi di Stato è satura e non consente quindi il normale flusso documentale. A livello periferico i versamenti degli uffici più attinenti ai temi interessati dalla Direttiva (uffici del Ministero dell’Interno e della Giustizia) sono fermi, tranne rare e sporadiche eccezioni, agli anni Cinquanta mentre, ai sensi della normativa attuale, dovrebbero avvicinarsi alla fine del secolo scorso.
Ciò comporta una situazione a lungo andare insostenibile che priva, come giustamente ricorda Giorgi, gli storici della seconda metà del Novecento delle fonti istituzionali a tutto vantaggio di fonti secondarie o alternative. Da questo stato di cose scaturisce una vera e propria piaga: la documentazione ingolfa gli archivi di deposito degli uffici, spesso tutt’altro che a norma e che spesso comportano spese per lo Stato a livello di affitti, per evitare che giunga alla sua sede di elezione, vale a dire l’Archivio di Stato. In questo contesto aumentano i rischi di “sparizioni” e distruzioni involontarie.

2) la cultura archivistica: per maneggiare la documentazione contemporanea è necessario un sapere archivistico specifico, tutt’altro che banale. E questo è vero a monte e a valle dei versamenti, vale a dire sia negli uffici produttori delle carte che negli Archivi di Stato. Invece a monte regna la precarietà più totale (ricordata da Stefano Vitali) nella ferma convinzione che quasi tutta la documentazione che non ha quotidiano valore amministrativo sia carta straccia; fa eccezione una minima parte delle carte che, però, per la legge del contrappasso, si stenta a versare.
Se Atene piange, Sparta non ride. Bisogna essere sinceri e confessare che anche negli Archivi di Stato (l’ACS fa un po’ storia a sé) la documentazione contemporanea è letta con insofferente distacco. il Postunitario è visto come “la provincia ai confini dell’Impero”; i suoi fondi sono riducibili a due profili: quelli a valore tecnico e amministrativo, molto richiesti e che quindi comportano un aggravio di lavoro, spesso ripetitivo e frustrante, quelli a valore storico in cui la documentazione è vista come scivolosa perché chiama in causa i coni d’ombra della memoria collettiva. Poco importa che esistano termini cronologici di consultabilità precisi, percorsi di autorizzazione alla consultazione, strumenti ulteriori di garanzia dei dati personali, come anonimato o iniziali; la consultazione di questi documenti agli occhi di molti funzionari diventa un salto nel vuoto, da procrastinare il più possibile, in una lotteria di decennali (trenta, quaranta, cinquanta, settanta, a volte anche cento).

3) le commissioni di sorveglianza: per ovviare al problema del necessario dialogo fra uffici e Archivi di Stato lo strumento ci sarebbe: le “Commissioni di sorveglianza”, ricordate in particolare da Andrea Leo. Le commissioni di sorveglianza dovrebbero vigilare sullo stato degli archivi correnti e di deposito, anche attraverso attività ispettive, e poi approvare le proposte di scarto. In realtà molto spesso diventano furtivi appuntamenti al buio dove si discutono, nel più breve tempo possibile, elenchi di scarto, a malapena comprensibili. Una corretta applicazione della Direttiva avrebbe dovuto investire sulle commissioni di sorveglianza e garantire un effettivo accesso degli archivisti ai depositi.

4) la natura della documentazione: fin qui abbiamo tratteggiato un chiaro cortocircuito conservativo e non solo, che interessa la documentazione oggetto della Direttiva. Abbiamo ricordato i problemi di spazio e di cultura archivistica, ma esiste un’ulteriore criticità da non sottovalutare, interna alle stesse carte di cui stiamo parlando. Queste carte, per loro natura, ci dicono poco e sono abnormemente estese. A partire dagli anni Sessanta la documentazione archivistica perde progressivamente di nitidezza, diventando una melassa che scappa da tutte le parti. Le serie aumentano di dimensione con progressione geometrica, ma perdono di contenuti informativi. Si assiste a una lievitazione dei fascicoli che però nasconde spesso il silenzio informativo. Ed è in questo contesto che interviene la ghigliottina degli scarti lineari, contro cui l’archivista può fare poco o niente.

Un briciolo di ottimismo: se fin qui abbiamo tratteggiato un quadro in chiaroscuro, ciò non può nascondere come l’applicazione della Direttiva Renzi abbia consegnato agli archivi documentazione comunque utile alla ricerca storica. Di più, ha visto versamenti da uffici (l’Arma dei Carabinieri o i Servizi) che dispongono di archivi storici autonomi o comunque restii alla collaborazione con la rete degli Archivi di Stato: istituzioni le cui carte erano state sempre chiuse alla ricerca, se si eccettua quei segmenti confluiti negli atti processuali o delle Commissioni parlamentari d’inchiesta.
Inoltre, dalle contraddizioni emerse nel corso dell’applicazione della Direttiva Renzi si può lecitamente imparare. E questo è quanto successo in seguito, attraverso l’attività e la mediazione, ricordata da Vitali, del Comitato consultivo sulle attività di versamento, le cui conclusioni, come afferma Simona Greco, hanno influenzato la diversa applicazione della successiva Direttiva Draghi (centrata su Gladio e la P2). In ultimo, la precoce digitalizzazione della documentazione e la possibilità di consultazione da remoto ci aprono una finestra su un futuro tutto da scrivere, quello in cui archivi e dimensione digitale dovranno per forza instaurare un dialogo, consentendoci di sperimentare pratiche virtuose. In questo senso il sistema creato dall’ACS appare un valido strumento che abbina a una certa snellezza nella consultazione le garanzie di un regolamento deontologicamente corretto.

Corollari: andando a concludere, posso soffermarmi solo rapidamente su altri aspetti che vanno a intersecare l’ambito della Direttiva.
Il primo chiama in causa la necessità che a questa documentazione si vada a affiancare anche quella prodotta dalla magistratura nell’ambito delle complesse inchieste per le stragi. Su questo esistono  “progetti pilota” che in diverse città italiane hanno promosso la digitalizzazione degli atti dei processi più rilevanti. Anche in questo caso, come per la Direttiva, non mancano contraddizioni, la più rilevante delle quali consiste proprio nella natura “a campione”.
Un secondo aspetto ci costringe a confrontarci, non senza una certa apprensione, con il mosaico di norme che disciplinano la consultazione della documentazione, da quelle, ormai consolidate, contenute nel Codice dei Beni culturali, al nascente “diritto all’oblio”. In questo caso il contributo di Giulia Barrera ci aiuta a sgombrare il campo da quello che ritengo sia un eccesso di isteria nei confronti del diritto all’oblio e del recente GDPR sui dati personali. In altre parole, credo che l’alternativa non si ponga fra un accesso selvaggio alla documentazione, compresa quella più recente, e un muro da erigere di fronte a qualsiasi uso documentario di non meglio identificati “dati personali”. È necessario tarare un bilanciamento fra le ragioni della riservatezza personale e quelle della ricerca storica, utilizzando un campionario di strumenti che disinneschino quella che rimane una contraddizione originaria.
Il terzo aspetto richiama strumenti e obiettivi della ricerca storica. Al mio contributo ho cercato di dare un taglio strettamente archivistico, ma ciò non esclude la mia formazione di storico, che mi spinge a riconsiderare uno degli obiettivi sottesi alla Direttiva, vale a dire rinvenire una sorta di verità originaria sulle stragi. Miguel Gotor nel volume ci ricorda che la storia è la “disciplina del contesto” e che per questo non teme una certa dose di segretezza sottesa alle fonti. L’interpretazione storica nel suo parto non ha bisogno necessariamente di una frase incriminata scritta in un documento classificato, quando di un contesto da cui far partire una rete di considerazioni.
In ultima analisi, e in estrema sintesi, la Direttiva Renzi più che un decisivo volano dello studio storico del fenomeno stragista rappresenta lo specchio dello stato del sistema archivistico in Italia. È da qui, da questa amara constatazione, che dobbiamo ripartire nel nostro lavoro di tutti i giorni.

Testo dellìintervento pronunciato a Bologna alla presentazione del volume il 14 dicembre 2022

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