Il progetto "Adopt Srebrenica", promosso e sostenuto dalla Fondazione Alexander Langer di Bolzano e dall’associazione Tuzlanska Amica di Tuzla (Bosnia Erzegovina), al di là del suo valore politico e morale e dell'importante messaggio di solidarietà umana che da esso promana, costituisce un'esperienza che invita a riflettere sulla capacità che archivi e documenti possono avere non solo nell'aiutare a recuperare una memoria spezzata dalla guerra e dal genocidio, ma anche a ricostruire, dal basso, fra le persone, un tessuto di convivenza e di riconoscimento reciproco.

Sede Adopt Srebrenica

Srebrenica. La nuova sede del progetto “Adopt Srebrenica”, promosso e sostenuto dalla Fondazione Alexander Langer di Bolzano e dall’associazione Tuzlanska Amica di Tuzla (Bosnia Erzegovina)

Una delle iniziative centrali del progetto, nato per tenere desta l’attenzione internazionale sulla tragedia che ha sconvolto la cittadina serbo-bosniaca nel 1995, è quella della costituzione di un archivio, o meglio, come più pudicamente viene definito, un centro di documentazione che ha come obiettivo la raccolta di materiale fotografico e documenti principalmente risalenti al periodo precedente il conflitto del 1992-1995. L’intento è quello di ricostruire la storia e l’identità di quel  territorio attraverso il recupero e la comunicazione di memorie individuali, capaci di testimoniare come si viveva a Srebrenica prima dell’inizio delle divisioni, della guerra, delle distruzioni e delle terribili stragi.
Questo obiettivo è tanto più significativo perché la guerra ha spesso distrutto le tracce della memoria, soprattutto di quella familiare, fatta di foto, di oggetti, di simboli. Quanti erano allora bambini e quanti sono venuti dopo spesso non hanno ricordi dei propri cari, né possono rievocarne la presenza fisica attraverso le immagini o i suoni di un tempo.

«Purtroppo i ricordi svaniscono, si affievoliscono – scrive Muhamed Advic, uno degli animatori del centro di documentazione -. Capita che ci siano delle persone che con la guerra hanno perso tutta la documentazione familiare». Raccogliere in un archivio comune quanto è ancora possibile recuperare significa condividere i ricordi: le foto di gruppo, di cerimonie, di gite, di feste dove, insieme a tanti altri, è ritratto un padre, un fratello, uno zio possono riempire il vuoto di ricordi di chi non ne ha più di concreti e tangibili. Ma la quotidianità colta nella sua straordinaria ordinarietà evoca anche il tempo in cui la vita trascorreva nella normalità dei rapporti fra gli uomini.
La rottura, il trauma della guerra, della violenza, del genocidio ha cambiato tutto. Ha reso “irreale” e difficile da immaginare ciò che c’era prima: il passato era davvero così? Da ciò il valore inestimabile della testimonianza concreta, di un documento, di una fotografia, di un oggetto che restituisce una dimensione reale a ciò che adesso sembra inconcepibile.

L’archivio di Srebrenica è quindi un archivio che nasce dal basso, per soddisfare i bisogni di una comunità. È un’esperienza riconducibile, per molti versi, ad un fenomeno emerso con prepotenza nel primo decennio di questo secolo in varie realtà, soprattutto del mondo anglosassone, ma anche dell’Europa orientale. Si tratta del fenomeno dei cosiddetti community archives, sul quale esiste ormai una consistente letteratura e che molte discussioni ha suscitato perché sfida molteplici schemi del tradizionale pensiero della disciplina archivistica. I community archives si segnalano per alcuni peculiari elementi. In primo luogo si tratta di archivi non governativi costituiti dal basso e gestiti da associazioni e organizzazioni indipendenti al fine di raccogliere e conservare materiali, spesso ignorati dalle istituzioni “ufficiali”, relativi ad una particolare tematica, ad una area geografica o all’attività di movimenti e associazioni. Un’altra loro importante caratteristica è quella di essere ispirati dalla volontà di conservare e trasmettere una memoria fortemente connotata da orientamenti politici e ideologici o, più semplicemente, da attivismo civico in difesa di diritti individuali e collettivi, spesso di gruppi e comunità minoritari ed emarginati. Essi sono molto diffusi soprattutto là dove la rete archivistica istituzionale è fragile e poco radicata nel territorio per ragioni storiche e politico-amministrative.

I community archives si allontanano per non pochi aspetti dai canoni archivistici tradizionali. In primo luogo per la composizione del materiale conservato, che riflette la varietà dei formati e dei media che caratterizzano la contemporaneità. Essi conservano quindi soprattutto fotografie, registrazioni audio-video, storie di vita, poster, letteratura grigia, ma anche oggetti materiali di varia natura ed uso. Ma la loro peculiarità risiede soprattutto nelle modalità di formazione, che procedono dal basso, secondo modalità che riflettono le esigenze e gli interessi delle comunità di riferimento. Il community archive è un fenomeno relazionale. Non solo si rivolge o è progettato come espressione di un gruppo o di una comunità, ma sviluppa rapporti fra le persone, costruisce legami, implica ricostruzione di storie di cui i membri del gruppo o della comunità sono protagonisti o narratori. È un archivio in cui l’intenzionalità e la soggettività sono molto forti. Da questo punto di vista si differenzia profondamente dalla tradizionale concezione dell’archivio, come frutto di sedimentazione spontanea e oggettiva.

Gli studi sui community archives indicano come alla radice di iniziative del genere ci sia l’esigenza di farsi protagonisti in prima persona della elaborazione di una propria memoria e di una propria storia senza delegarne la narrazione ad altri soggetti – accademici, professionisti del cultural heritage, operatori dei media – poiché questa operazione – si sostiene – è un elemento che dà consapevolezza e rafforza la comunità ed è potenzialmente foriera di  trasformazioni politiche e sociali. Come ha scritto uno dei massimi teorici dei community archives, Andrew Flinn, «la costituzione di archivi autonomi e indipendenti quando ispirata da un progetto incisivo di public history, non semplicemente di celebrazione o rivendicazione ma anche di riflessione e interpretazione del passato, può rappresentare non solo un luogo-istituto dove il passato è documentato e passivamente conservato ma può decisamente essere anche uno spazio nel quale l’archivio può diventare un significativo strumento di scoperta, crescita e di consapevolezza».

È il progetto che ispira anche i giovani di Srebrenica, cui è importante dare sostegno, come, con lodevolissima iniziativa, sta facendo l’Istituto piemontese per la storia della Resistenza e della società contemporanea “Giorgio Agosti” di Torino, mettendo a loro disposizione le proprie competenze archivistiche ed Archos, il proprio software di descrizione archivistica.

Per saperne di più

I fiori di Srebrenica. Citta della memoria, città della speranza
Flinn, Andrew, Archival Activism: Independent and Community-led Archives, Radical Public History and the Heritage Professions. “InterActions: UCLA Journal of Education and Information Studies”, 2011, 7(2)
Community archives. Models of cooperation with the state, Warsaw, 2015

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