Lo scorso dicembre si è tenuto a Cagliari, promosso e ospitato dalla locale Università, organizzato da ANAI e da AIDUSA, l’associazione dei docenti di discipline archivistiche, il convegno Professione archivista: stato dell'arte e prospettive per la formazione e il lavoro. Nell’arco di tre giorni di interventi, dibattiti, tavole rotonde si è cercato di fare il punto sugli scenari in cui si colloca oggi il lavoro e il ruolo sociale dell’archivista.
Lo scorso dicembre si è tenuto a Cagliari, promosso e ospitato dalla locale Università, organizzato da ANAI e da AIDUSA, l’associazione dei docenti di discipline archivistiche, il convegno Professione archivista: stato dell’arte e prospettive per la formazione e il lavoro. Nell’arco di tre giorni di interventi, dibattiti, tavole rotonde si è cercato di fare il punto sugli scenari in cui si colloca oggi il lavoro e il ruolo sociale dell’archivista. Mentre sono in preparazione gli atti che saranno pubblicati nel prossimo numero della rivista «Archivi», pubblichiamo l’intervento tenuto in apertura da Augusto Cherchi che, nella brevità di un saluto introduttivo, ha portato l’attenzione su alcuni nodi avvertiti come urgenti nell’interpretazione della professione. Si tratta di spunti ripresi anche nella giornata che il 5 aprile ha affrontato il tema delle Associazioni professionali di fronte alla Grande trasformazione, incontro inserito nel quadro delle iniziative che hanno scandito il programma dell’Assemblea nazionale dell’Anai. L’appuntamento annuale destinato a tracciare i bilanci e a impostare le strategie dell’Associazione, quest’anno si proponeva come un momento di particolare importanza: da una parte infatti veniva a coincidere con il 70° anniversario dalla costituzione dell’Anai, dall’altra ospitava le elezioni per il rinnovo delle cariche sociali. Il nuovo direttivo, appena eletto, sarà uno dei principali protagonisti a cui è affidato il compito di interpretare i quesiti che sono oggi al centro del modo di guardare al futuro della professione.
Apriamo oggi, qui a Cagliari, uno di quegli appuntamenti periodici che scandiscono l’attività delle nostre associazioni; momenti in cui interrompiamo per qualche ora i lavori che ci impegnano quotidianamente e ci fermiamo per fare il punto sulla nostra professione, per confrontarci e interrogarci su chi siamo, cosa facciamo, qual è il ruolo che interpretiamo nel contesto (mutevole) della società nella quale ci troviamo a operare. Momenti che in alcune occasioni hanno rappresentato tappe significative e tra queste mi fa piacere ricordare l’incontro che si tenne proprio qui in Sardegna nel 1996 nel cui ambito prese forma l’idea di avviare la lista di discussione Archivi23, dimostrando lungimiranza e capacità di visione se pensiamo che gli utenti attivi sul web in quel momento erano poco più dell’1,5% della popolazione nazionale; cifra che sarebbe rapidamente cresciuta arrivando al 44% dieci anni dopo e a 40 milioni di persone, cioè il 65% degli italiani nel 2016 (mentre nel mondo gli utenti di internet raggiungevano la cifra di un miliardo nel 2005 per raddoppiare nel giro di 5 anni e superare i 3 miliardi nel 2014). È la crudezza dei numeri a far percepire l’intensità e la rapidità dei cambiamenti con cui ci siamo dovuti confrontare e che inevitabilmente condizionerà anche le riflessioni che in questi giorni ci ripromettiamo di condividere.
In questo breve intervento di apertura mi limiterò a indicare tra i tanti temi che la scaletta del convegno introduce quelli che avverto come più urgenti. Sarà perciò un contributo che porrà delle domande più che esprimere delle affermazioni.
Il primo spunto è suggerito dai testi che abbiamo diffuso per presentare queste giornate, nei quali l’archivista è descritto come “una figura sempre più indispensabile”; ci rappresentiamo come coloro ai quali è affidato il compito di “conservare la memoria per ri-progettare il futuro”: sono queste le espressioni che usiamo per auto-descriverci. Ma se questo è il racconto che ripetiamo a noi stessi, non possiamo non chiederci se una descrizione altrettanto convincente è fatta propria dal mondo in cui viviamo. Noi vorremmo che così fosse ma la percezione del nostro ruolo è davvero quella che esprimiamo in quelle battute? E se così non è – perché alla prova dei fatti scopriamo che l’immagine diffusa del nostro lavoro e dei nostri istituti è ben diversa – quali azioni intendiamo intraprendere affinché questo iato si ricomponga? Quale funzione hanno associazioni come l’Anai per ricollocare l’immagine degli archivi e degli archivisti all’interno della società? Credo che da giornate come quelle che ci attendono possano e debbano emergere indicazioni e risposte capaci di suggerire modifiche nei nostri comportamenti pratici, di orientare un nostro riposizionamento concettuale, di proporre iniziative e prese di posizione anche di natura politica. Mettere a fuoco il ruolo che interpretiamo nel mondo richiede uno sforzo di autoanalisi importante, ci costringe a trovare delle chiavi di lettura utili a comprendere i cambiamenti che sono intervenuti attorno a noi, a fornire indicazioni per incidere sulla realtà e per orientare l’azione. Coscienza di sé e capacità di costruire un dialogo efficace con i contesti in cui operiamo, sono i termini della questione.
L’analisi che dobbiamo condurre non può prescindere dall’esame dei cambiamenti di natura strutturale che hanno segnato il mondo negli ultimi decenni: tutti i contesti professionali e quindi economici, nessuno escluso, sono stati toccati da trasformazioni epocali. La penetrazione delle tecnologie assistite dal computer è diventata a tal punto pervasiva da modificare non soltanto il modo di fare le cose ma ha modificato gli stili di vita, i bisogni delle persone, le loro modalità di interazione, gli scenari di mercato, ha creato nuove figure professionali, nuovi prodotti, nuovi mercati, ha imposto la ricerca di nuovi paradigmi interpretativi. Posti di fronte a questi scenari, noi archivisti come abbiamo reagito? Siamo stati capaci di riconsiderare il nostro lavoro? Abbiamo adeguato i percorsi formati ponendoci il problema di introdurre nella cassetta degli attrezzi dell’archivista che verrà gli strumenti adeguati a operare in questi mutati contesti?
Nel proporvi queste considerazioni mi torna alla mente ciò che scrive Jeremy Rifkin in un recente lavoro significativamente intitolato Una società a costo marginale zero (2014). Rifkin si sofferma ad analizzare il sistema economico progressivamente affermatosi nel corso degli ultimi due secoli – il capitalismo – e ne constata lo stato di crisi. Cosa lo ha fatto “saltare”? Non l’imporsi di un modello alternativo, ma l’esasperazione di uno dei suoi presupposti e precisamente di quello che afferma che ogni innovazione tecnologica comporta la possibilità di produrre quantità crescenti di beni a un costo decrescente. Se questa affermazione è vera (ed è vera) siamo arrivati al punto in cui in taluni contesti si possono ottenere quantità infinite di prodotto che vengono distribuite a un costo prossimo allo zero. I settori in cui questo fenomeno si è già ampiamente manifestato sono proprio quelli della produzione di contenuti culturali vale a dire quelli in cui si svolge non poca parte della nostra attività. La ricostruzione di Rifkin ci fornisce una cornice interpretativa per comprendere ciò che di fatto abbiamo constatato nel concreto del nostro operare degli ultimi anni: la perdita di valore attribuito alle nostre attività. Questo cambio di scenario nel momento in cui tocca una dimensione professionale quale la nostra ci impone di ragionare su come rivedere il modello, su come interpretare il nostro lavoro e fare in modo che continui a essere considerato “lavoro” cioè sia in grado di produrre valore, pur in contesti così profondamente mutati. È ancora Rifkin che ci suggerisce in che direzione guardare per trovare risposte alla necessità di individuare nuove risorse quando sottolinea come un ruolo importante nella riconsiderazione di modelli di sviluppo si possa trovare nell’economia di comunità, nel terzo pilastro, nella costruzione di un rapporto diretto con i contesti sociali che vivono attorno ai nostri istituti. In questo ambito si apre allora per l’associazione professionale degli archivisti l’esigenza di porre all’ordine del giorno la ridefinizione dei suoi obiettivi e dei suoi compiti. Cosa vuole dire oggi, in questi scenari così profondamente mutati, per l’Anai interpretare il suo principale mandato di tutelare la professione? Probabilmente vuole dire operare per dare vita a un ecosistema in cui tutte le componenti che operano nel settore (siano grandi istituti pubblici, aziende che affrontano il nodo della gestione documentale, fornitori di servizi, dipendenti pubblici e privati distribuiti su livelli diversi, liberi professionisti, utenti e ricercatori ecc.) pur nella consapevolezza di essere portatori di interessi specifici che rispondono a sollecitazioni diverse e nel concreto delle singole iniziative potranno essere di volta in volta l’una controparte dell’altra, collaborano alla costruzione di un quadro di riferimento generale condiviso e sviluppano insieme e coerentemente occasioni di lavoro, elaborano progetti, promuovono iniziative di advocacy a vantaggio di tutto il mondo degli archivi.
Questa riflessione, condotta sul filo dell’interpretazione dei cambiamenti, per l’Anai vuole in qualche misura anche dire fare i conti con il proprio DNA. L’Anai per molti decenni dalla sua costituzione è rimasta sostanzialmente l’associazione degli archivisti di Stato che oggi, all’interno dell’Associazione, sono una componente minoritaria (anche se attendiamo di vedere se la recente immissione in servizio di quasi 200 archivisti nel MiBAC modificherà nuovamente gli equilibri). Oggi, a settant’anni dalla costituzione, la fotografia dell’Anai vede gli archivisti di Stato attestarsi al 12% del totale degli associati, mentre maggioritaria è la componente di quel nucleo che viene classificato sotto l’etichetta di “libero professionisti” (49%). Se però andiamo a vedere i dati qualitativi raccolti con la Rilevazione sullo stato della professione condotta nel 2014, l’autorappresentazione di sé dell’archivista che opera in modo autonomo sul mercato non è quella del professionista autorevole ma di un lavoratore precario che vive con difficoltà se non con imbarazzo la propria dimensione lavorativa.
Ancora, scorrendo la sequenza di temi che saranno affrontati nei tre giorni di convegno, trovo una particolare ragione di interesse per l’intervento dedicato all’archivio d’impresa. Credo infatti che in questo ambito esistano spazi potenziali assai ampi per interpretare il lavoro dell’archivista. Il vastissimo mondo dell’impresa è oggi alle prese con la transizione dall’analogico al digitale e, anche solo per l’esigenza di fare fronte ad adempimenti normativi sempre più incalzanti, ha preso coscienza dell’importanza della gestione documentale e del governo dei propri archivi in quanto depositi del know-how, del patrimonio informativo, asset strategico di ogni azienda. Senonché operare in un contesto d’impresa vuole dire innanzitutto avere ben chiaro che obiettivo primario dell’impresa non è la conservazione a fini culturali ma è il business, l’operatività aziendale, l’efficienza amministrativa, la riduzione dei costi. Di nuovo viene da pensare a come i nostri percorsi formativi si pongono di fronte all’esigenza di preparare professionisti attrezzati per operare in un contesto d’impresa. La sfida dovrebbe essere quella di fare percepire la figura dell’archivista non come quel personaggio solitario che toglie la polvere dai faldoni nei magazzini al secondo piano sotto terra ma come il professionista capace di lavorare in staff e di interagire con i piani alti del palazzo, dove si definiscono i budget, si impostano le strategie, si discute di organizzazione e di modelli di comunicazione.
Praticamente tutti i punti su cui, in questa rapida ricognizione, abbiamo portato l’attenzione hanno comportato un rimando alla costruzione di quella che abbiamo definito la “cassetta degli attrezzi” dell’archivista che oggi deve operare all’interno di perimetri assai meno definiti di un tempo e in continuo mutamento. Ecco allora che il tema della formazione permanente assume una valenza decisiva per soddisfare il bisogno di aggiornamento che diventa una costante nell’interpretazione della professione (oltre a essere un requisito previsto dalla normativa relativa al riconoscimento delle professioni non ordinistiche). In questo quadro, un intervento dedicato a fare il punto sull’esperienza che si è consolidata in questi ultimi anni in Anai credo avrebbe potuto portare un contributo utile a completare il quadro offerto dalle relazioni dedicate ad esaminare formazione di base, avanzata, specialistica, somministrata dalle scuole degli archivi di Stato ecc. In questo 2018, a compimento di un processo che ha coinvolto l’associazione in un articolato dibattito interno durato più di 5 anni, per la prima volta in Anai si è pianificata una attività di formazione che lungo tutto l’anno ha visto realizzare 20 corsi per un totale di oltre 250 ore di lezione, coinvolgendo più di 300 partecipanti. Si tratta di una attività che, di fatto, caratterizza l’Anai come agenzia formativa. Molto resta ancora da fare per consolidare un’esperienza che ci avvicina (finalmente) al modello di alcune delle associazioni gemelle che raccolgono i colleghi di alcune delle più importanti comunità professionali straniere, ma al tempo stesso, poteva essere questa l’occasione per iniziare a valorizzare un’esperienza che di fatto è un punto di riferimento tutt’altro che trascurabile per la nostra comunità.
Ed è la parola comunità a introdurre l’ultimo aspetto su cui mi fa piacere portare l’attenzione. Un convegno come quello che stiamo per seguire, la sala affollata in ogni ordine di posti che ho di fronte a me in questo momento sono la testimonianza dell’esistenza di una comunità. Credo che ci sia molto da fare per consolidare il senso di una comunità professionale che, al di là di tutte le differenziazioni, si riconosce attorno ad alcuni fondamentali, valorizza la dialettica come momento di confronto per elaborare soluzioni innovative, non cerca unanimismi di facciata che non corrispondono alla realtà ma è capace di realizzare sintesi efficaci, costruisce relazioni che si consolidano in progetti condivisi, aiuta chi porta avanti il proprio lavoro in una condizione spesso solitaria a sentirsi parte di un tutto più vasto. A questo proposito si possono individuare alcune esperienze che stanno dando un contributo in questa direzione. Penso al Master di Macerata (FGCAD – Formazione Gestione e Conservazione di Archivi Digitali in ambito pubblico e privato) che al di là dei contenuti specifici che affronta (fondamentali per posizionarci in contesti avanzati), edizione dopo edizione, ha consolidato il ruolo di punto di riferimento per una comunità professionale che si identifica e si ritrova. Penso ancora al lavoro impostato con sistematicità e metodo dal GIAI il Gruppo italiano archivisti d’impresa dell’Anai che, sotto la conduzione di Francesca Pino, dal 2014 è diventato un luogo in cui ci si ritrova per aggiungere a ogni appuntamento un elemento di conoscenza in più. E da ultimo credo che un contributo importante al consolidamento del senso di una comunità professionale potranno darlo i colleghi che sono entrati negli organici del MiBAC grazie al già citato recente concorso: il clima che si respira in questi istituti dà il segnale che c’è stato un innesto di energie nuove, di voglia di fare, di spirito di iniziativa e di stili che dovranno essere valorizzati.
Porsi l’obiettivo di dare vita e fare crescere una comunità professionale capace di consolidare la consapevolezza di sé e del proprio ruolo sociale, di confrontarsi senza infingimenti, di condividere un senso di appartenenza, che si riunisce periodicamente in incontri non formali con l’ambizione di affrontare nodi di sostanza, credo sia un altro aspetto e forse il più importante da cui trarre stimoli per questi giorni che passeremo insieme.