Epifania negativa e assuefazione all’orrore sono i due poli teorici attorno ai quali Susan Sontag nel 1973 definisce il rapporto fra i testimoni e i documenti. I primi a cui spetta l’elaborazione ed i secondi a cui al contrario spetta la costruzione della percezione del singolo e della memoria collettiva.
Il filo della riflessione in maniera dapprima sottile e poi evidente, mette in luce l’elemento paradossale di quel rapporto che culmina con la lucida certezza che la dimostrazione inconfutabile della violenza e dell’orrore, la stessa lucida comprensione come anche il sentimento empatico nei confronti dell’altrui sofferenza, sia minato dalla sovraesposizione a immagini raffiguranti la medesima violenza.
Questa ‘assuefazione alle immagini e ai documenti’ che fissano la sofferenza, la morte e il dolore di altri esseri umani torna nel nostro presente legata alle tragiche vicende di profughi e migranti.
Una prima dimensione documentaria si manifesta nelle misure sull’immigrazione clandestina, Zero Tolerance, promosse dall’amministrazione Trump per poi essere “riviste” frettolosamente. Le note misure stabilivano, in sintesi, che i minori separati dai propri familiari in attesa di giudizio sulla propria condizioni di immigrati irregolari, fossero presi in custodia dal dipartimento di Sanità degli Stati Uniti e trasferiti in “strutture governative”.
Documentate e viste da vicino le strutture governative finiscono per sembrare prigioni, o meglio, lo sono e i numeri sono impressionanti (almeno 2000 minori separati dalle famiglie). La sostanza di quel procedimento diventa ‘inaccettabile’ ed il resto è cronaca politica. Lo scarto tra la policy governativa e la tragica realtà è rappresentata dalla fredda semantica amministrativa dei documenti consegnati ai genitori arrestati che stride, con altri documenti: le registrazioni audio dei bambini presi in custodia.
In Europa allo stesso modo i Paesi dell’Unione discutono sul carico di responsabilità condivisa in termini di accoglienza. Parlano di numeri, come si fa quando si ragiona di quantità e statistiche. Le parole più ricorrenti sono: EMERGENZA, ACCOGLIENZA, RESPONSABILITÀ.
Mentre alcuni prendono posizioni, alcuni porti si aprono ed altri si chiudono e si scoprono continuamente i nomi di navi o imbarcazioni come oggetti narrativi che galleggiano in attesa di indicazioni. Esseri umani sopravvivono in attesa di arrivare da qualche parte. Le immagini dei naufragi e delle vittime sono diventate le prime pagine di molti quotidiani e hanno scatenato un grottesco inutile dibattito.
La verità è che l’utilizzo delle immagini, come strumento di confronto ideologico o politico di interpretazione della realtà, ancor prima che la storia sia compiuta, che la storia sia diventata storia, perde di vista la realtà. Una grossolana superficialità è in agguato, qualunque posizione si sostenga, se non si ricorda che quelle immagini sono testimonianze e rappresentazioni di esseri umani.
Da archivisti alcune domande scavano profondamente nella consapevolezza della deontologia professionale: cosa rimarrà negli archivi di questo nostro presente? Tutto ciò che possiamo offrire è una sorta di “redenzione documentaria”, come per i registri di Ellis Island? Possiamo offrire almeno quella? Quale memoria rimarrà di queste persone intrappolate tra i confini? Quali parole saranno legate alle loro storie?
Le parole che si trasformano in azioni politiche ed in alcuni casi in leggi, definiscono la realtà. C’è una differenza tra scrivere e vedere una “struttura amministrativa”. C’è differenza tra vedere e parlare di 127 migranti a bordo di una nave in attesa di ricevere un permesso di approdo. Cogliere queste differenze è un modo di imporsi consapevolezza. Un modo per essere coscienti, qualunque sia la propria posizione.