L'investimento in campo archivistico dovrebbe essere basilare in una realtà come quella sarda che porta avanti da decenni un discorso legato alla valorizzazione della propria identità. Ma come viene gestito il settore archivistico nell’isola?
Se escludiamo le realtà statali, il grosso degli interventi archivistici è gestito con fondi regionali e si sviluppa durante gli anni Ottanta, sulla spinta di un provvedimento legislativo urgente, teso a favorire l’occupazione giovanile, femminile e delle categorie svantaggiate (ex L.R. 28/1984). Sono nate nel territorio aziende, che in alcuni casi si sono sviluppate e in altri sono rimaste delle piccole società interessate solo ad una gestione meramente locale.
Nella quasi totalità dei casi si è comunque giunti ad affidare la gestione degli archivi a soggetti esterni, solo in alcuni casi affiancati da dipendenti pubblici. Se nell’immediato la gestione esterna è apparsa al legislatore una soluzione che permetteva buone ricadute occupazionali sul territorio e prometteva di essere meno dispendiosa della gestione diretta, nondimeno il sistema presenta delle criticità. Una di queste è costituita dalla discontinuità nella gestione: l’affidamento temporaneo periodicamente deve essere prorogato alla stessa società, o alla sua scadenza sottoposto ad un nuovo bando di gara; non di rado i periodi di gestione risultano, però, troppo brevi perché possa essere fatta una corretta programmazione.
Un altro problema deriva da una visione parziale e viziata da particolarismi locali che ha portato ad investimenti a pioggia e all’apertura di cantieri di lavoro spesso ingiustificati e a volte neppure necessari. Diverse volte alla base di tali scelte vi sono scopi occupazionali che sono comprensibili ma che, alla lunga, si rivelano fallimentari se non dannosi per l’immagine dell’intero comparto. Una frammentazione nella progettazione e nella spesa, che ha portato negli ultimi decenni ad un enorme spreco di risorse ed a una cattiva gestione del lavoro e degli investimenti.
Questi problemi, nell’attuale congiuntura economica, si presentano in maniera ancora più gravosa. Negli ultimi anni, a fronte di un calo dei finanziamenti regionali, si è assistito a gestioni rinnovate talora mese per mese e a rischi di particolarismo e ad investimenti non sempre corretti né giustificati nelle nuove tecnologie.
Il problema che oggi appare più pressante è però quello del personale che, anche se non di ruolo, necessita di avere un lavoro stabile, continuo e garantito nel tempo. È evidente che operatori precari, sottopagati e sempre, o spesso, a rischio di licenziamento – e quindi facilmente ricattabili – non possono garantire una grande
efficienza. Spesso lavorano a fianco di dipendenti pubblici che non hanno le stesse specializzazioni e solo la loro professionalità garantisce la corretta gestione dei beni.
La frequente mancanza di figure professionali specifiche all’interno delle amministrazioni pubbliche ha ripercussioni negative anche nella fase di selezione del personale (nel caso di reclutamento di collaboratori esterni) e in quella della redazione di bandi di gara e della successiva valutazione delle offerte (in caso di
esternalizzazione del servizio). Soprattutto in questo ultimo caso può avvenire che tale valutazione, affidata a personale non tecnico, sia basata su criteri meramente economici senza che venga stimata correttamente la congruità dell’offerta ed il suo reale valore scientifico. È poi inutile aggiungere che con i tagli degli ultimi anni è partito un gioco al massimo ribasso che colpisce prima di tutto gli operatori.
Prima conseguenza di questa tendenza al ribasso è la mancata applicazione del contratto di settore. Se fino a pochi anni fa tutto il personale era inquadrato con il contratto Federculture, come previsto dalla Legge regionale n. 4 del 2000 e dalle successive deliberazioni (Deliberazioni Giunta Regionale n. 36/6 2000 e n. 50/47 2009), nell’ultimo periodo in molti comuni è stato sempre più spesso applicato il contratto Multiservizi, quello generico e previsto, tra l’altro, per le pulizie. In conseguenza di ciò, abbiamo operatori iperspecializzati che vengono pagati 5 euro all’ora e, soprattutto, che vengono mortificati nella loro dignità professionale.
Tutto questo nonostante il finanziamento regionale continui ad essere erogato avendo come base i livelli contrattuali del Federculture. A ciò si aggiunge – e purtroppo ormai sta diventando la norma – che gli operatori vengano pagati quando capita, con ritardi nell’erogazione degli stipendi di 5- 8 mesi. Nonostante l’entrata in vigore della L.R. 14/2006, che prevedeva un piano regionale per i beni culturali, gli istituti e i luoghi della cultura (art. 7), questo, approvato con delibera 64/6 del 18.11.2008, è scaduto senza mai trovare applicazione.
Questo vuoto normativo, la mancanza di controlli e la lentezza nei pagamenti hanno portato ad una situazione di estremo disordine e spreco. Ci sono enti che, pur continuando a ricevere i finanziamenti regionali, decidono di chiudere servizi o li riducono, con il conseguente blocco dell’appalto e successivo licenziamento del personale. Apparentemente questo avviene senza nessun controllo.
Quali possono essere i rimedi o almeno i correttivi da applicare a questa situazione?
La proposta di istituzione di una Fondazione per i beni culturali e paesaggistici della Sardegna (proposta di legge N. 235, XIV legislatura) ha suscitato sia aspettative che preoccupazioni. Si è trattato di un’iniziativa lodevole nella sua essenza, perché si proponeva di dare stabilità o almeno continuità lavorativa agli operatori, ma sono diversi gli aspetti che destavano perplessità:
- Non era chiaro quali garanzie di solidità nel tempo fossero offerte dalla Fondazione;
- non si capiva quale sarebbe stato il ruolo delle cooperative e soprattutto quello del personale amministrativo;
- non era chiaro in che modo gli enti locali potessero trovare la motivazione e la convenienza nel partecipare finanziariamente alla Fondazione;
- doveva essere assicurato l’ingresso degli operatori attraverso una selezione pubblica mirata, che valorizzasse titoli ed esperienza e che mettesse al riparo dal ricorso di terzi;
- era necessario coinvolgere nel C.d.A. l’ANCI, i comuni ed eventualmente anche l’Anai e non solo l’Università e Soprintendenze;
- era necessario garantire mobilità all’interno della Fondazione, che potesse portare gli operatori anche a ricoprire ruoli di coordinamento e supervisione.
Troppi quindi i punti che richiedevano una maggiore riflessione e si presentavano di non facile soluzione. Oggi occorre pensare ad un percorso che porti ad affermare anche in Sardegna modelli gestionali unitari e coordinati, per garantire stabilità alle aziende e agli archivisti impegnati e per evitare sprechi assurdi nell’erogazione dei finanziamenti. Alla luce delle riforme che stanno toccando la pubblica amministrazione isolana sarebbe forse auspicabile una progettazione capillare che veda come principale interlocutore le unioni dei comuni.
È dunque necessario ripartire rimettendo mano alla legge n. 14 del 2006, innanzitutto attualizzandola rispetto al mutato quadro amministrativo regionale ma, soprattutto, correggendone alcune carenze alla luce di una verifica puntuale della sua passata applicazione. Per fare questo è necessario coinvolgere anche gli archivisti e l’Anai, che possono fornire al legislatore un parere qualificato sull’efficacia della norma, mettendone in luce le criticità e indicandone i relativi correttivi.
È a nostro avviso basilare dare stabilità al personale, valorizzandone competenze e professionalità, assicurando loro delle adeguate condizioni lavorative che – sembra scontato dirlo, ma purtroppo non lo è – partano dall’applicazione di un contratto di settore e garantiscano una continuità nell’attività lavorativa. Un altro punto che dovrebbe essere inserito nella legge riguarda i bandi di gara, troppo spesso redatti e valutati da personale non addetto ai lavori. Dovrebbe invece essere prevista la consulenza della Soprintendenza nella fase di redazione del bando e, soprattutto, in quella di valutazione delle offerte, affinché possa essere fatta una corretta stima della congruità dei progetti presentati e del loro valore scientifico, dando una premialità per le offerte volte alla valorizzazione dei beni piuttosto che ad una loro ordinaria gestione.
Purtroppo troppo spesso gli amministratori degli enti locali vedono negli archivi, come in ogni settore in cui gli investimenti possono essere valutati solo a lungo termine, un peso e non una risorsa. Deve invece essere chiaro che la salvaguardia e la valorizzazione della memoria, nel quadro di una corretta gestione del patrimonio culturale, possono e devono contribuire alla crescita civile.