Vienna 1741; nella notte tra il 27 e il 28 luglio muore, sessantatreenne, Antonio Vivaldi. Poco più di un anno era trascorso da che il musicista veneziano s’era trasferito nella capitale dell’Impero, sperando di dare così una svolta alla sua carriera. Il compositore lasciava decine di migliaia di pagine di componimenti diversi, gran parte dei quali scritti di suo pugno, testimonianza di una attività fervida, portata avanti nel corso degli anni.
Un archivio musicale ricchissimo, autentica miniera per musicologi e storici della musica, che rimase a lungo nascosto e probabilmente ignorato fino agli anni ’20 del Novecento, quando riemerse in Piemonte, grazie alle qualità umane e intellettuali di un piccolo gruppo di torinesi, che, a vario titolo e in modi diversi, si impegnarono per riportarlo alla luce e metterlo a disposizione del pubblico.
Una storia rocambolesca, quella dell’archivio musicale di Vivaldi, ben raccontata nella mostra della Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, curata da Annarita Colturato (musicologa e docente di storia della musica dell’Università di Torino) e Franca Porticelli (responsabile dei fondi antichi della Biblioteca Nazionale Universitaria), e il cui titolo sottolinea l’imprevedibilità del destino di quegli autografi: “L’approdo inaspettato” appunto. A Torino, infatti, il ‘prete rosso’ non aveva trascorso che poche settimane della sua vita, negli anni della formazione; è tuttavia nel capoluogo piemontese che si conserva la porzione di gran lunga più rilevante della sua produzione, più del novanta percento dei componimenti.
Come mai? cosa accadde?
Vari gli eventi che hanno segnato la storia delle carte vivaldiane, ricostruita attraverso l’esame di un numero consistente di documenti, alcuni noti da tempo, altri trovati più di recente.
La prima testimonianza dell’esistenza dei manoscritti, che i familiari dell’artista vendettero subito dopo la sua morte, è il catalogo della biblioteca del senatore veneziano Jacopo Soranzo (1686-1761), compilato nel 1745. In quel documento gli autografi del compositore veneziano si possono identificare in 27 tomi di opere vivaldiane, tanti quanti sono oggi.
Non era tuttavia in quella forma che Vivaldi li aveva lasciati: le oltre 15.000 pagine di musica erano conservate dal compositore in fascicoli, contenenti le singole partiture, affinché potessero essere prestate e copiate, in poche parole agevolmente utilizzate per lo scopo per il quale erano state concepite, l’esecuzione. L’intento conservativo sopravvenne solo dopo la morte del compositore; è così quasi certo che a far condizionare le opere nello stato in cui sono ancora oggi (ovvero legate in pergamena semplice nei 27 volumi) fosse quel Jacopo Soranzo che per primo le aveva acquistate. Interessante peraltro rilevare il criterio di quel primo (e definitivo) riordinamento: prive di data – come era normale, per conservare ai componimenti una allure di novità, anche quando prodotti da tempo – le opere vennero organizzate grosso modo per genere. Un dato, questo, che mette in risalto scelte originali, come ad esempio l’abbondanza di componimenti per fagotto, che porta gli storici della musica a ipotizzare la presenza nel conservatorio veneziano, dove Vivaldi spese una fetta importante della sua vita lavorativa, di una virtuosa di quello strumento. Molte le informazioni e gli spunti che emergono dalla visione dei manoscritti, che vengono esposti al pubblico tutti insieme per la prima volta dopo anni – e per la seconda volta in assoluto. Ma prima di dire qualcosa degli autografi, restiamo ancora sulla loro storia.
Alla morte del senatore Soranzo la sua grande biblioteca venne divisa, in porzioni acquistate da varie famiglie veneziane (Marin, Zorzi, Cornaro). Una parte importante tuttavia, che includeva i vivaldiani, se l’aggiudicò l’abate Matteo Luigi Canonici (1727- 1805), al quale si deve una delle principali raccolte private del Settecento. Già nel 1780 però Canonici cedette gli autografi vivaldiani, che non rientravano nel suo principale filone di interesse – lo erano i manoscritti letterari di stampo umanistico. Ne entrava in possesso il conte genovese Giacomo Durazzo, ambasciatore imperiale presso la Repubblica di Venezia nonché raffinato intenditore di musica. Da quel momento l’archivio musicale di Antonio Vivaldi sparì dalla circolazione per riapparire, come in un fenomeno carsico, a grande distanza e oltre centoventi anni dopo.
I volumi ricomparvero infatti a Borgo San Martino (Alessandria) nel 1926, nel locale collegio dei Salesiani al quale un discendente di Giacomo Durazzo (Marcello) aveva destinato la sua biblioteca. Volendola vendere per fare fronte a problemi finanziari, il rettore del collegio chiese una stima all’allora direttore della Biblioteca Nazionale di Torino, Luigi Torri. Ebbe inizio così una nuova fase nella storia dell’archivio vivaldiano e un processo di rivalutazione dell’intera opera del compositore veneziano, che si mise in moto grazie anche a una rete di legami sociali, rafforzati dall’amore per la cultura e dalla cura per il bene pubblico. Torri, intuita l’importanza della raccolta si rivolse all’amico Alberto Gentili, primo docente di storia della musica presso l’Università di Torino, perché lo aiutasse a bloccare la vendita e ad assicurare il fondo alla biblioteca. Ci si riuscì solo grazie alla straordinaria generosità di un agente di cambio, Roberto Foà, membro come Gentili della locale comunità ebraica. Foà mise a disposizione una somma considerevolissima per acquistare la biblioteca durazziana e poi donarla alla Biblioteca Universitaria. Solo chiese che la raccolta venisse poi intitolata al terzo dei suoi figli, Mauro, morto quando ancora non aveva compiuto un anno.
Nel frattempo Gentili aveva iniziato il suo lavoro sui manoscritti vivaldiani e, insieme alla grande importanza del fondo, aveva da subito notato che i volumi non erano tutti, ma la metà di una serie. Lo denunciavano con chiarezza le lacune, regolari, nella loro numerazione, che saltava puntualmente una cifra. Evidentemente il fondo era stato diviso. Ci si dette allora da fare per recuperare l’altra metà, ritrovata là dove era rimasta: a Genova, presso Giuseppe Maria Durazzo, membro di un altro ramo della famiglia. Insieme a una lunga trattativa per convincere il conte a vendere la sua parte degli autografi, si dovette lavorare per trovare un secondo benefattore, e lo si trovò, questa volta, nell’industriale Filippo Giordano, che acquistò i manoscritti e, avendo anche lui perso un figlio, chiese che i volumi da lui donati avessero l’ex libris in onore di Renzo Giordano, morto a dodici anni. L’accettazione della seconda donazione è datata 30 aprile 1930.
Pochi anni dopo la conclusione felice di quella vicenda Alberto Gentili, che ne era stato il regista, si vide allontanare dall’insegnamento in quanto ebreo (1938). Toccante il documento prestato dall’Archivio storico dell’Università di Torino che reca la testimonianza di quel terribile provvedimento, e in cui il nome di Gentili compare accanto a quello di altri studiosi – tra cui Arnaldo Momigliano – che si videro espellere dall’Ateneo per effetto delle leggi razziali.
Insieme alle lettere, all’albero genealogico dei Durazzo, agli inventari e ai cataloghi, le curatrici hanno compiuto una scelta di documenti che, insieme alla storia di un importante archivio musicale, raccontano bene un pezzo di storia culturale, politica e sociale d’ltalia. Coesistono con i risultati degli studi condotti sui manoscritti ritrovati, dai quali è emerso il Vivaldi che conosciamo oggi e che erano rimasti fino ad allora in gran parte in ombra: pochi componimenti erano infatti andati in stampa. Nella parte finale dell’esposizione sono esposti i primi lavori e le prime edizioni critiche di quei manoscritti che, giunto alla fine dell’esposizione, il visitatore vedrà a quel punto con occhi molto diversi, potendone apprezzare appieno il grande valore.
Molte le tracce lasciate da Vivaldi sugli originali, e che catturano l’attenzione del visitatore: dal modo di tracciare la propria firma, ai ripensamenti, alle indicazioni di esecuzione, ai giudizi sui cantanti. Tutti dati che, grazie alle didascalie e ai testi di accompagnamento, possono essere compresi e goduti non solo da musicologi e appassionati di musica. Stimolanti risultano pure le scelte espositive, che aprono le questioni, sempre aperte, attinenti la capacità di far parlare materiali come quelli esposti, in modo che arrivino anche al pubblico di non specialisti, senza però tradire le aspettative legittime di chi specialista lo è davvero.