Albert Camus, parlando di cose assai serie definì la rivolta un principio anti-nichilista. Individuò un divario ideologico fra ribellione metafisica e ribellione storica prima di contrapporre entrambe alla ricerca di equilibrio.

Recuperando quel divario e riportandolo alla dimensione conservativa più che politica, potremmo ricavarne una formula che individua nella stessa divisione di posizioni, funzioni evoluzionistiche e necessità conservative. Dopo aver riflettuto a sufficienza, individueremmo nella moderazione l’unica strada percorribile.
«Impadronirsi della memoria e dell’oblio è una delle massime preoccupazione delle classi e dei gruppi e degli individui che hanno dominato e che dominano le società storiche» asseriva Le Goff cristallizzando in poche righe, un meccanismo tanto opaco quanto definito.
L’evoluzione e il progresso tecnologico odierno hanno finito col delineare una visione a-storica della nostra memoria a causa della quale il valore della conservazione soccombe dinanzi all’ansia della comunicazione. Quella “Pietas dello scritto, con le sue liturgie e i suoi sacerdoti, che costituisce la reale molla della conservazione”(1) nella quale si identifica un processo di selezione e trasmissione, virtuoso o miope ma comunque sicuro, è svilita da tentativi assai maldestri di ridefinire e sovvertire. Basi, quelle appena accennate, di una considerazione più ampia che meriterebbe un’attenta e analitica riflessione sulla percezione che si ha dell’esercizio del potere altrui e dei suoi reali effetti su ognuno di noi, ma che in questo contesto fornisce a chi scrive il pretesto per sottolineare che “nel suo complesso la sorte di ogni cultura è affidata non soltanto alle aspettative di durata delle proprie opere nutrite dai rispettivi autori o dalla forza di una tradizione riproduttiva, ma soprattutto alla capacità di resistenza nel tempo dei processi conservativi e delle istituzioni giuridiche e fisiche ovunque preposte alla conservazione” (2).
In modo sempre più preoccupante il controllo esercitato sulla memoria non è più una forma di governo politico, ma una dinamica orientata al profitto, o peggio ancora la somma di entrambe. Prolificano incontrollatamente “comunità di memoria” anomale e aggressive legate al progresso come forma di alfabetizzazione necessaria.
Elemento di non poco conto se si considera che la coercizione esercitata dal controllo politico della memoria impallidisce di fronte al rischio della sua mercificazione per un uso comunicativo. Si sostituisce al male di una imposizione, una molto più pericolosa “visione consumistica” della memoria, che distrugge negandolo il ricordo e che delinea un controllo assai più subdolo sui pensieri e sulle parole, ponendoli costantemente di fronte al giudizio. Una nuova frenesia “tecnocratica” sottrae inconsapevolmente tempo, riflessione ed incidenza; svanisce per così dire il pensiero, e tutto diviene Informazione. Ingenerare un accesso orizzontale e universale ai dati e alla notizia è un principio evolutivo naturalmente, ma dovremmo cautamente chiederci: se la coscienza media come medi strumenti di verifica siano in grado di scongiurare il rischio che tale materia informativa finisca per l’annichilirci? Ogni dato è oggi brutalmente accomunato all’altro, asetticamente rintracciabili subito e subito dopo persi o nascosti. Una strana astrazione dei meccanismi della conservazione della memoria impartisce progresso associandolo alla sua universale fruibilità. Un principio di disponibilità di ogni memoria, che non tutela affatto la sua elaborazione perché ne sottrae valore e considerazione.

Riprendo il filo della riflessione e mi convinco che la responsabilità di una corretta ridefinizione dei paradigmi della conservazione, nel tempo della disponibilità assoluta, sia prendersi un piccolo istante di esitazione.
Riflettere sull’assegnazione di senso e non solo di spazio o scopo, ribaltare il processo di acquisizione funzionale di un “informazione” o di un “documento” per caricarlo di un valore immediatamente storico. Aspetti di una testimonianza che si manifesta prima di produrre valore giuridico o contemporaneamente ad esso, per scongiurare il rischio di essere ingoiata e poi dimenticata. In questo senso, se io fossi un documento, ancor prima che un archivista risponderei annuendo senza esitazione alla domanda: “è lecito pensare che il contrario di oblio non sia memoria, ma giustizia?” (3).

 

 

(1) A. PETRUCCI, Scrivere e conservare la memori in Prima Lezione di Paleografia. GLF Editori Laterza, Roma-Bari 2000. pp.116-126.
(2) Ibidem.
(3) Y.H.YERUSALMI, Riflessioni sull’oblio, in Usi dell’oblio, Parma, Pratiche editore, 1990.

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