In quali luoghi, facendo riferimento a quali uffici e a quali persone si sono formati, sono stati ordinati e gestiti gli archivi che fanno del patrimonio documentario italiano uno dei più importanti e imponenti al mondo?

Studiolo di Federico da Montefeltro (wikimedia commons)

A queste domande intendono rispondere i quindici saggi che costituiscono il volume curato da Filippo De Vivo, Andrea Guidi e Alessandro Silvestri, Archivi e archivisti in Italia tra medioevo ed età moderna (Roma, Viella, 2015).

Tredici studi di caso, un’introduzione e una postfazione, illustrano il potenziale informativo del patrimonio archivistico italiano; non solamente la straordinaria ricchezza dei suoi depositi documentari, ma anche quella legata alla storia dei singoli istituti. Specchio di una frammentazione politica secolare, essa ha altresì comportato un proliferare di esperienze amministrative diverse, con similarità dovute ad influenze reciproche ma anche soluzioni originali.

Gli archivi diventano così fonte primaria di riflessione e vengono indagati su aspetti di storia sociale, economica, culturale, oltreché istituzionale e politica, che emergono studiando le persone e le occasioni che ne hanno determinato la formazione, l’organizzazione, la conservazione, la fruizione. Naturalmente la storia dell’archivio è ben nota agli archivisti, dal momento che ogni buon inventario inizia con una storia dell’istituto. Qui però la storia degli archivi viene affrontata da una prospettiva diversa, con un approccio che non è puramente istituzionale, ma che guarda agli archivi per ricavarne quanto in essi si rispecchia della società nella quale, e per la quale, essi esistono.

Cosa sia la storia comparata degli archivi nel panorama storiografico tradizionale, è tema ampiamente esplorato nell’introduzione, dove i tre curatori del volume chiariscono il contesto nel quale esso è stato realizzato: il progetto ERC “AR.C.H.I.ves Per una storia comparata degli archivi italiani tra tardo medioevo e età moderna” (2012-2016), appena concluso e dal quale emergeranno ulteriori contributi. Il progetto, si chiarisce, esplora la storia degli archivi di alcune città italiane che nel passaggio tra medioevo ed età moderna marcarono il proprio statuto e ruolo di capitali anche attraverso l’organizzazione, o riorganizzazione, degli archivi. Firenze, Milano, Ferrara/Modena, Napoli, Palermo, Roma, Venezia sono i casi esaminati nel progetto.

In questo volume alcuni di quei casi sono presentati in un contesto popolato da numerosi altri studi dedicati ad altre vicende, talvolta puntuali, talvolta decisamente trasversali. I contributi sono raccolti in tre sezioni che disegnano tre diverse prospettive che potremmo definire di storia sociale, storia politica e storia culturale.

In Figure e strategie collettive si trovano le storie di soggetti preposti al lavoro di archivio (inteso nel senso di produzione, custodia e conservazione dei documenti), evidenziando l’influenza di quell’impegno professionale sulla posizione sociale. Le vicende dei singoli illuminano poi sul modo con cui gli apparati amministrativi e di governo andarono rimodellandosi. Si hanno così: “Archivi senza archivisti” (Alessandro Silvestri) ovvero l’affidamento ai notai della custodia dei documenti nella Sicilia del Quattrocento. Nello stesso lasso di tempo si consuma l’emblematica vicenda (illustrata da Pier Paolo Piergentili) di Luca Beni della Serra, archivista di confine: tra due stati (il Comune di Gubbio nelle terre della Chiesa e il ducato di Urbino) e due diverse concezioni del ruolo ricoperto (offitium e servitium). Si resta nei territori controllati dal papa con il saggio di Andrea Gardi dedicato a G.M. Monaldini, cancelliere del Legato di Bologna difine Cinquecento, che offre l’occasione per una disamina più generale della evoluzione di alcune figure coinvolte nella costruzione dello stato del sovrano pontefice. In che modo i sovrani utilizzarono il ruolo del personale delle cancellerie per ridisegnare il proprio intervento sul territorio è ben chiarito nel contributo di Irene Mauro che analizza il caso del governo delle comunità di una zona del Granducato mediceo. Chiude la prima sezione un corposo saggio di Carlo Bitossi che analizza il consolidarsi di una sorta di oligarchia burocratica che si forma nel corso dell’età moderna negli uffici di segreteria e cancelleria della Repubblica di Genova.

La seconda sezione, intitolata Archivi e potere, tocca direttamente la questione del rapporto tra la costruzione o il rafforzamento dell’apparato di governo e l’allestimento e la gestione degli archivi pubblici. I cinque casi considerati bene evidenziano, da una parte, le discontinuità segnate dai mutati equilibri internazionali (rilevabile in particolare nel saggio Rivero Rodríguez), dall’altra la persistenza della figura del notaio, fondamentale nella costruzione stessa del rapporto tra gli individui e le collettività (saggio di chiusura). La sezione si apre con un caso emblematico, per l’importanza esplicitamente riconosciuta all’archivio, nel mantenimento degli equilibri all’interno della Repubblica di Venezia. Filippo de Vivo dimostra come un’analisi delle modalità di gestione degli archivi veneziani ne faccia emergere anche le fragilità, altrimenti nascoste dietro la dichiarata consapevolezza che negli archivi si trovasse il ‘cuore dello Stato’. Il caso gli offre l’occasione per tornare sulle questioni di metodo, che sono alla base della ricerca di cui è responsabile: uno studio analitico dei sistemi di gestione degli archivi, e delle vicende personali degli attori coinvolti, può portare perfino a ribaltare giudizi consolidati. Focalizzato su un periodo particolare è il saggio di Vanna Arrighi, dedicato alla riorganizzazione della cancelleria fiorentina nei 15 anni successivi all’allontanamento di Machiavelli (1512-27). L’analisi nel breve periodo consente di seguire in dettaglio i dispositivi messi in atto dai Medici per riprendere il controllo sulla repubblica, tra i quali si segnalano la tendenza a confondere gli ambiti della cancelleria pubblica con la segreteria medicea e quella di servirsi di persone di basso livello sociale e costrette ad un frequente avvicendamento, limitandone così l’autonomia.

Di grande peso fu a Ferrara, nella seconda metà del secolo, la figura di G.B. Pigna, capace di mettere in ombra personalità quali G.B. Giraldi Cinzio e Battista Guarini (saggio di Laura Turchi). A Pigna si deve l’allestimento della ‘Grotta’ di Alfonso II d’Este, posto in essere nell’ultimo quarto del XVI secolo per gestire i delicati materiali prodotti dalla diplomazia mediante un complicato sistema di indicizzazione. Si evidenziano bene così i dispositivi posti in essere da un piccolo stato per garantirsi la sopravvivenza entro equilibri generali completamente mutati.

Lo spostamento all’estero del baricentro italiano è ben chiarito nel saggio di Manuel Rivero Rodríguez, sulla costruzione dell’Archivio del Consiglio d’Italia a Madrid. L’organismo nasceva alla fine del Cinquecento nel tentativo di mettere ordine alla documentazione prodotta da un organismo nato per questioni pratiche, il governo dei territori italiani ora controllati dalla corona spagnola. Primo archivista fu nominato Juan de Casanate, allora già novantenne. La ricostruzione della vicenda personale del Casanate, della sua provenienza sociale, della vicinanza al partito ebolista, delle frequentazioni italiane, servono a chiarire il peso da lui esercitato nell’allestimento di un organismo, che voleva essere un modello per l’archivio di un impero, e non semplice memoria di una monarchia.

Chiude la sezione centrale un denso contributo a quattro mani (Andrea Giorgi e Stefano Moscadelli) che illustra le modalità di conservazione degli archivi notarili sul lungo periodo: formalmente i secoli XV-XVIII, ma con un paragrafo che riprende le pratiche messe in atto nei secoli centrali del medioevo. Uno spaccato di grande interesse, per la capacità di inseguire, nel corso dei secoli, l’evoluzione di una figura fondamentale come quella del notaio nella sua funzione di custode della pubblica fede. Pure proponendo un piano per una geografia della conservazione e una periodizzazione, in conclusione i due autori suggeriscono di considerare comunque il notaio come unico comun denominatore di una scena altrimenti animata da una varietà di realtà politico-istituzionali che verrebbero snaturate da qualunque tentativo di ricondurle a modello unificante.

Il tema della terza sezione, Archivi e cultura, è forse il più difficile da spiegare. Ad un primo sguardo si potrebbe dire, infatti, che si tratta di inseguire gli archivisti nel tempo speso in archivio a fare altro rispetto alle mansioni d’ufficio: l’archivista che ha anche un’attività letteraria, o ancora chi torna sulle carte coi panni dello storico. Ma sarebbe solo una prima superficiale lettura. A ben vedere si tratta di esplorare, attraverso singoli casi, lo specifico di una cultura archivistica, ovvero un modo, tutto proprio, che alcuni funzionari d’archivio hanno elaborato tornando alle carte per usarle come documenti da studiare o fonti di ispirazione. Si hanno qui tre casi diversi: il primo è quello del notaio ferrarese Ugo Caleffini (saggio di Beatrice Saletti) inseguito nel suo farsi storico della città e cronachista in versi, nutrendoli con notizie tratte dai documenti. Giacomo Giudici si concentra sull’importanza che ebbe l’impiego in segreteria nella biografia intellettuale di Ludovico Annibale Della Croce, finora noto soprattutto per le sue prove di letterato. Il terzo saggio, di Gian Maria Varanini, è dedicato allo specifico della cultura notarile, così come emerge dall’esame del De arte cancellarie, trattato composto intorno al 1460 dal notaio padovano Pietro Della Valle. Concepito come vademecum dell’ufficiale inviato nei territori del dominio veneto, il trattatello diventa lo specchio delle modalità con cui il governo della Repubblica si consolidava nei dominii di terraferma.

Il volume si chiude con la postfazione ddi Peter Burke, che riflette su Cosa è la storia degli archivi? Riecheggiando alcune sue celebri riflessioni – What is Cultural History? – Burke sottolinea l’emergere di una nuova prospettiva storiografica, che guarda agli istituti di conservazione per quello che raccontano in quanto tali e non per i documenti che conservano.

La storia degli archivi si propone insieme a quella delle biblioteche e dei musei, portando alla luce problematiche storiografiche diverse: alla raccolta, conservazione e utilizzo delle informazioni si sommano questioni di identità professionale, sociale e culturale relative ai soggetti e ai professionisti. Anche le tradizionali periodizzazioni vengono messe in discussione, al punto che si pone la necessità di trovare un nuovo paradigma interpretativo.

 

 

Archivi e archivisti in Italia tra medioevo ed età moderna

a cura di Filippo de Vivo, Andrea Guidi, Alessandro Silvestri

Roma, Viella, 2015 (I libri di Viella, 203), p. 398

€ 36,00

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