Christian Boltanski (Parigi 1944-2021), regista, pittore, fotografo, sin dagli esordi ha esplorato con le sue opere la memoria, personale e collettiva. Attraverso le sue installazioni e le sue opere fotografiche, ha sempre cercato di portare alla luce le ignote identità del passato per farle rivivere nel presente, riscattandole dal buio dell’oblio.
Con la prima delle installazioni della serie delle Réserves (Réserve: Canada, 1988), l’arte narrativa di Boltanski rivela, come ha scritto Francesca Sofia, quanto sia «segnata dalla memoria della Shoah. Canada infatti non è solo il luogo in cui è stata realizzata la prima di queste Réserves, ma anche l’appellativo con cui i deportati chiamavano il deposito in cui nei Lager veniva ammassato quanto era stato loro tolto. E rispetto all’indicibilità del genocidio Boltanski ha compiuto davvero opera di storico. Avvicinandosi a quanto Lanzmann ha realizzato con il linguaggio filmico in Shoah, Boltanski, attraverso una serie di opere, come per esempio la Classe terminale du lycée Chases en 1931, ha recuperato la testimonianza e la presenza delle vittime del genocidio. E lo ha fatto non solo evocando la loro passata esistenza, ma ce le ha presentate deformando le fotografie originali e rendendole simili ai volti emaciati di coloro ai quali la sorte aveva consentito di sopravvivere ai campi. In tal modo è riuscito a penetrare il “buco nero”, secondo la felice espressione di Primo Levi, insondabile tramite la descrizione e il ragionamento, attraverso la memoria empatica. Non si è trattato di un’opera d’archiviazione di volti e di esistenze, ma di costruzione di un vero e proprio “archivio”, quello stesso che racchiude i materiali su cui si chinano gli storici».
Scorrendo i volti fotografati delle numerose installazioni che l’artista concettuale ha dedicato alla memoria della Shoah, vengono in mente i versi di Dante Alighieri (1265-1321): «perché di lor memoria sia, / sovra i sepolti le tombe terragne / portan segnato quel ch’elli eran pria». All’inizio del XII canto del Purgatorio, Virgilio suggerisce a Dante di volgere lo sguardo in giue (verso il basso). Le tombe che si trovano a terra (terragne) portano raffigurata nel lieve rilievo del marmo (segnato) l’immagine dei morti così come erano in vita (quel ch’elli eran pria) affinché resti viva la loro memoria (perché di lor memoria sia).
La parola memoria viene dal latino memōria(m) e porta con sé una lunga, per l’appunto, memoria letteraria, a partire dalle origini, nel suo significato fondamentale di ‘capacità che l’essere umano ha di ricordare, cioè di conservare e richiamare alla coscienza nozioni ed esperienze del passato’. «Memoria è fermo ricevimento nell’animo delle cose e delle parole e dell’ordinamento d’esse», scrisse il maestro di Dante, Brunetto Latini (1220-1294).
Nella lingua ordinaria, si può qualificare la memoria in base alla sua capacità di ritenere dati, sia in modo generico (avere una grande, buona, cattiva, discreta memoria) sia in modo più circostanziato o espressivo: memoria pronta, tarda, debole, fenomenale, ferrea, formidabile, infallibile, labile, lacunosa, portentosa, prodigiosa, vacillante; avere memoria per i nomi, per le persone, per i luoghi, per le fisionomie.
Nel Novecento, ha scritto il linguista Costantino Ciampi, «il linguaggio dell’informatica ha […] rispolverato parecchie parole già in uso, adoperandole in contesti nuovi, con nuovo significato […] È il caso dell’italiano memoria (inglese storage, memory [dal 1946]; francese mémoire [1969]) che, in virtù di una metafora antropomorfica, ha visto estendere il suo significato fino a indicare, tra le varie parti d’un elaboratore, quei dispositivi sui quali si registrano i dati per conservarli, richiamarli, modificarli o distinguerli (memoria centrale; memorie periferiche; memoria a dischi, a nastri, ecc.)».
In generale, molti organismi possiedono la capacità di conservare una traccia più o meno completa e duratura degli stimoli esterni sperimentati e delle relative risposte. C’è stato anche chi, come il controverso immunologo francese Jacques Benveniste (1935-2004), ha ipotizzato l’esistenza di una memoria dell’acqua, consistente nella capacità di trattenere una sorta di ricordo delle sostanze con cui l’acqua fosse venuta in contatto. La prova sperimentale di Benveniste, che avrebbe dato una giustificazione definitiva della validità dell’omeopatia, replicata più volte da personalità espressione della scienza ufficiale, non diede l’esito adeguato.
Maggiori certezze abbiamo senz’altro sulla memoria umana (a breve e a lungo termine), benché lo studio dei meccanismi di funzionamento dell’attività mnemonica siano complessi e non ancora pienamente svelati dalla ricerca scientifica. Di una cosa siamo sicuri: è nell’essere umano che tale funzione raggiunge la più elevata organizzazione, interessando l’intero cervello. Ha scritto la neuropsichiatra Geni Valle: «Memorizzare è una sofisticata funzione delle cellule cerebrali – neuroni – che attraverso la loro attività chimica (produzione di neurotrasmettitori) e fisica (elettrica) ci consentono un’acquisizione stabile di tutto ciò che apprendiamo (per esempio, il linguaggio) e di possedere la storia della nostra vita, con tutte le emozioni che la accompagnano».
Molte informazioni sul funzionamento della memoria sono state elaborate a partire dallo studio delle patologie e dei disturbi che la interessano, dalle amnesie momentanee all’Alzheimer, passando per le intossicazioni (alcool o droghe) e per l’aterosclerosi. Sigmund Freud ha aperto la via allo studio delle operazioni psichiche, veri e propri meccanismi di difesa consci o inconsci (repressione e rimozione), che tendono a far scomparire dalla coscienza un contenuto spiacevole.
Certe volte, però, se la sostanza del ricordo è formidabile, dimenticare è impossibile, come scrisse Giovanni Zanotto (1930-1998), padre comboniano: «Questa dote crudele che distingue l’animale dal fossile. La memoria: riuscire con bel paio di forbici a potarla […]: risparmiare solo le cose belle, essenziali, confortevoli, prive di stecchi pungenti, mutilare a colpi netti solo là dove occorra. Sarebbe splendido, ma la memoria vi dà tutto o niente, non tollera amputazioni di comodo».
Nella tragicomica epopea La tregua, Primo Levi (1919-1987) dà conto della consistenza della memoria più atroce del Novecento, attraverso uno scampolo di racconto apparentemente leggero, in cui il gruppetto di ex internati allo sbando smussa il pungolo feroce della fame: «Nessuno di noi era certo che questi [funghi] fossero mangerecci; d’altra parte, si poteva forse lasciarli marcire nel bosco? Non si poteva: eravamo tutti mal nutriti, e inoltre era ancora troppo recente in noi la memoria della fame di Auschwitz, e si era mutata in un violento stimolo mentale, che ci obbligava a riempirci lo stomaco a oltranza e ci vietava imperiosamente di rinunciare a qualsiasi occasione di mangiare».
Siamo quindi arrivati a un significato forte di memoria. Il passo successivo è quello, deliberato, consistente nella volontà di non dimenticare certi orrori della storia, utilizzando vari strumenti. Si può ricorrere ad iniziative di alto profilo civile, con dichiarato intento rievocativo, didascalico, pedagogico (oltre che simbolico), come il Giorno della memoria, manifestazione internazionale di commemorazione delle vittime della Shoah, istituita nel 2000, che si celebra ogni 27 gennaio, poiché in quel giorno del 1945 le truppe sovietiche liberarono il campo di concentramento di Auschwitz.
Per saperne di più
Arianna Di Genova, Christian Boltanski, il respiro della memoria, «Il Manifesto», 15 luglio 2021
Francesca Sofia, Christian Boltanski, arte per storia e memoria, Atlante, Treccani.it
Christian Boltanski nell’Enciclopedia Treccani.it
Testo della legge istitutiva del Giorno della memoria
La voce memoria nel Vocabolario Treccani.it
La citazione da Brunetto Latini è nel Grande dizionario della lingua italiana della UTET, a cura di Salvatore Battaglia
Costantino Ciampi, Note sul lessico dell’informatica, in «Lingua nostra», XXXIII, 1972, n. 3, pp. 93-99.
Geni Valle, Memoria, in Enciclopedia dei ragazzi, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2006.
Giovanni Zanotto, Pellegrini del tempo, Piovan, Abano Terme 1978, cit. in M. Cortelazzo – U. Cardinale, Dizionario antologico italiano fondamentale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2012.
Primo Levi, La tregua, prima edizione Torino, Einaudi 1963 (opera vincitrice del premio Campiello e finalista del premio Strega nello stesso anno di pubblicazione).