Quando Giovanni Vittani, futuro direttore dell’Archivio di Stato di Milano, inaugurò l’anno scolastico 1915 della Scuola dell’Istituto, non immaginava che più di cent’anni dopo la dotta prolusione Gli archivi nelle sommosse e nelle guerre, letta in quell’occasione, avrebbe ispirato una mostra e un convegno internazionale.
In quegli anni di guerra il tema, di grande attualità, fu ripreso più volte anche per “influenzare” le delegazioni incaricate di definire le clausole dei trattati di pace che avrebbero dovuto permettere all’Italia di rivendicare gli archivi ancora in mano austriaca e a Vittani di recarsi a Vienna per individuare la documentazione da riportare a Milano.
Il destino degli archivi durante i periodi turbolenti, quando guerre, sommosse, cambi di governo minacciano e mettono a rischio la stessa esistenza dei documenti, è stato oggetto di una mostra e di un convegno internazionale, organizzati dall’Archivio di Stato di Milano.
La mostra documentaria, allestita nell’ambito degli eventi che hanno ricordato Napoleone nel bicentenario della sua morte, ha raccontato, attraverso quattro diversi filoni narrativi, il contesto storico, le vicende dell’Archivio milanese e le peripezie subite dalla documentazione nel corso di quella travagliata epoca e il curioso viaggio di tre ciocche di capelli di Bonaparte giunte a Milano nel 1817 e oggi conservate dall’Archivio di Stato.
Il convegno internazionale «Gli archivi nelle sommosse e nelle guerre. Dall’età napoleonica all’era della cyber war», svoltosi in modalità telematica dal 3 al 6 novembre 2021, è stato trasmesso live streaming sul Canale YouTube e sulla Pagina Facebook dell’Archivio di Stato di Milano e ha visto la partecipazione di 36 relatori, di cui 14 stranieri, 10 moderatori e circa 6.800 “spettatori”.
Le otto sezioni del convegno hanno evidenziato gli effetti immediati delle guerre, del passato e contemporanee, sugli archivi, in diverse aree del mondo, mettendo in luce i più ricorrenti: distruzioni più o meno volontarie, dispersioni, tentativi non sempre riusciti di proteggere le carte allontanandole dai centri di combattimento, fino alle spartizioni decise dai trattati di pace internazionali, secondo principi introdotti in età moderna di territorialità e di provenienza degli archivi.
Uno spazio particolare è stato riservato agli archivi militari e a quelli ecclesiastici. I primi, considerati in quanto fonti storiche fondamentali per ricostruire i periodi bellici, conservano nei propri Uffici storici diari, carteggi operativi, relazioni mensili e pubblicazioni diverse di grande interesse per i ricercatori e gli archivisti.
L’Archivio Vaticano, prototipo di archivio trafugato come bottino di guerra durante le campagne napoleoniche e poi restituito al legittimo produttore quando le sorti del conflitto sono cambiate, è stato al centro di alcune relazioni sugli archivi ecclesiastici, ricordati anche per il loro utilizzo nella Germania nazista per indagare sulle origini razziali dei cittadini, e come testimonianza dei rapporti tra Stato e Chiesa in Italia.
Il leitmotiv dei fondi archivistici smembrati e dispersi per cause belliche, emerso in particolare a proposito degli archivi di Genova, dei Farnese e dell’Iraq, ha permesso di riflettere sulla rottura del vincolo quando gli archivi sono spostati o sequestrati in guerra, e sulla successiva formazione di nuovi legami tra i documenti anche in seguito a maldestri interventi sull’ordine originario delle carte. In alcuni casi è stato provvidenziale l’intervento di storici locali che hanno acquisito parti di archivi smembrati, poi confluite in Istituti culturali pubblici. In altri ancora anche i documenti di archivi privati – lettere, diari e registri personali – sequestrati, rubati e poi venduti, sono stati raccolti e messi a disposizione di tutti, contribuendo così alla costruzione della memoria collettiva, come ricordato per la guerra civile americana.
Il fenomeno della raccolta di epistolari, diari, fotografie, memorie dei combattenti e altre testimonianze belliche ha spostato l’attenzione sugli “pseudo archivi”, come quelli creati dalla Rete degli archivi di scrittura popolare dagli anni Ottanta del secolo scorso, o quelli conservati dal Museo delle guerre d’Italia di Genova, costituito dal 1915, o ancora le raccolte di documenti di partigiani dell’Anpi. Tra questi particolari fondi, per i quali è legittimo porsi il problema della provenienza e dell’individuazione del soggetto produttore, sono da annoverare anche le raccolte di carte e altre testimonianze appartenute alle vittime del genocidio di Srebrenica, divenute tra l’altro prove di crimini di guerra e di violazioni dei diritti umani durante la guerra civile bosniaca del 1992-1995.
Il convegno ha dedicato l’ultima Sessione ai documenti digitali creati e utilizzati come fonte d’informazione nel corso di sommosse, insurrezioni e guerre a noi più vicine nel tempo.
Tra questi, sono state presentate alcune collezioni digitali americane, create dal National Security Archive e dal W. Wilson Center come strumenti di democrazia diretta prima ancora che come fonte per gli storici. Il primo istituto, privato, ha raccolto copie di documenti prodotti dal governo americano e donati da privati, sui temi della politica estera americana, utili per studiare la guerra fredda, lo sviluppo del nucleare, arrivando alle crisi degli anni ’90 e alla guerra in Iraq del 2003. Il W. Wilson Center, istituto pubblico finanziato dal Congresso, ha invece realizzato il Cold War International History Project, collezionando riproduzioni digitali di documenti provenienti da archivi dell’ex URSS e dei paesi aderenti al Patto di Varsavia, messi a disposizione da singoli ricercatori ai fini della divulgazione collettiva.
Il tema del nucleare è stato ripreso anche per fare il punto sulle fonti disponibili – archivi degli scienziati, riviste industriali, fondi documentari e riviste di uomini e partiti politici – e mettere in luce personalità e vicende finora ignorate o poco studiate riguardo allo sviluppo di tecnologia dei reattori nucleari per usi “pacifici”.
Parlando di archivi digitali è stato osservato che essi, nonostante i principi archivisti teorici di base non cambino, per la loro varietà, velocità di creazione, volume e volatilità richiedono nuovi approcci. Al contrario dei tradizionali documenti analogici, i record digitali sono vulnerabili, facili da distruggere, perdere, corrompere, manomettere, possono diventare inaccessibili ed è possibile preservare solo la capacità di riprodurli o ricrearli. Per dare una soluzione all’imminente sfida della scadenza delle firme digitali aggiunte ai record già archiviati, è stato presentato il modello di conservazione basato sulle tecnologie blockchain, che permettono di preservare l’integrità dei record anche dopo la scadenza dei certificati di firma utilizzati nelle firme digitali.
In conclusione, in tutti gli scenari di guerra evocati durante il convegno, dai conflitti del passato a quelli contemporanei, scoppiati in Italia, in Europa o nel resto del mondo, è apparso centrale il ruolo degli archivisti, per il loro coinvolgimento in prima persona nei progetti di smembramento o ricostituzione di archivi, nelle rivendicazioni e nelle restituzioni di fondi in base ai trattati di pace (basti pensare ai più volte evocati Daunau, archivista di Napoleone, all’ispettore generale Rossano, a Giovanni Vittani ed Eugenio Casanova in Italia, a Joseph von Hormayr, fondamentale per la costituzione del Geheimes Haus -, Hof – und Staatsarchiv di Vienna, e così via). In definitiva, nei periodi critici, nel clima di persistente insicurezza nel quale si trovano a operare, gli archivisti, oltre a far fronte all’indebolimento delle istituzioni e alla distruzione delle infrastrutture come strade, elettricità e telecomunicazioni, devono anche fare i conti con le pressioni dei potenti e dei poteri politici, come le biografie di tanti archivisti di ieri e di oggi possono testimoniare.