Inventario s. m. Descrizione analitica dei documenti contenuti in un fondo archivistico.

Il nome proviene per via libresca dal latino tardo inventarium; la lingua cugina dell’italiano, il francese, riprende inventaire da un’altra forma latina medievale, inventorium. La base comune è, attraverso il participio passato inventus, il verbo della latinità classica invenire ‘trovare, scoprire’ (in-venire, letteralmente imbattersi in qualcosa di nuovo). Nel suo significato primario di ‘enumerazione, descrizione ordinata e completa di un insieme di oggetti, beni, documenti e simili’ (Dizionario De Mauro), collocati in un certo luogo e in un certo tempo, il vocabolo mostra la sua dimensione di europeismo linguistico e culturale: oltre al francese inventaire, abbiamo inventario (castigliano), inventari (catalano), inventário (portoghese), inventar (romeno); fuori dell’area romanza, inventory (inglese), inventar (tedesco), inventar’ (russo), inwentarz (polacco e albanese); perfino, fuori della grande matrice delle lingue indoeuropee, inbentarioa in lingua basca.

Con il significato, noto ancor oggi ai bibliotecari e agli archivisti, di ‘catalogo, repertorio, indice, schedario’, si trova già un’attestazione ne Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, e scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri (ed. 1550) di Giorgio Vasari:

«Quando io presi primieramente a descrivere queste Vite, non fu mia intenzione fare una nota degli artefici ed uno inventario, dirò così, dell’opere loro».

Nel senso più esteso di ‘descrizione ordinata e completa di un gruppo di oggetti radunati in un determinato luogo e momento’, inventario è stato usato sin dalle origini della letteratura, se intendiamo come documenti della civiltà letteraria anche le scritture di àmbito pratico: gli elenchi costitutivi degli inventari di cui siamo in possesso erano intesi a descrivere e valutare distintamente i beni che appartenevano al patrimonio di una persona o di una collettività, oppure registravano attività e passività di imprese commerciali, di solito alla presenza di un pubblico ufficiale notificante. Nello Statuto del Comune toscano di Montagutolo (1280), per esempio, si dispone in merito all’inventario dei beni di un cittadino morto: «Qualunque ora alcuna femina del detto Comune rimanesse vedova, el rectore e ‘l camerlengo sono tenuti a farle fare inventario de’ beni del suo marito, innanzi che la stesse ne la casa del suo marito una nocte». La parola inventario si allarga naturalmente a indicare beni di proprietà per uso strumentale, costituenti un patrimonio non immediatamente spendibile ma parte del tesoro di un’istituzione privata o, come emerge da questo brano di un’epistola machiavelliana, pubblica: «Attenderete a mettere in luogo securissimo le artiglierie e rassettare tutte le munizioni, e consegnarle a qualcuno; e di tutto vogliamo ci mandiate inventario e nota particularmente».

E con il significato di ‘enumerazione e descrizione di beni, di oggetti presenti in un luogo in un dato momento’, ne La dismissione (Rizzoli, 2002) Ermanno Rea trasforma l’inventario in co-protagonista metaforico di Vincenzo Buonocore, ex operaio incaricato dello smantellamento dell’acciaieria Ilva di Napoli, che sottopone a inventario l’intero patrimonio dell’Ilva, in vista dell’imminente vendita ai cinesi.

«In fondo, a pronunciarla alla buona, che cosa ha di strano la parola inventario? Siamo onesti: niente. Significa enumerare una serie di oggetti» (p. 127).

«Quando arrivò il momento dell’inventario disse che avremmo dovuto alloggiare il materiale censito e meticolosamente “cartellinato” in un vasto locale dell’acciaieria LD, sistemandolo in un ordine “sovrumano” (disse proprio così: “ordine sovrumano”). È proprio necessario chiarire quel che tutti sanno, e cioè che un inventario – un inventario di questo genere – può determinare effetti depressivi della peggiore specie? Non avremmo dovuto passare in rassegna un caotico insieme di oggetti, più o meno inutili e più o meno personali – tavoli, sedie, quaderni, utensili, qualche macchina per scrivere, qualche vecchio computer – ma segmenti importanti del passato di ciascuno di noi. Un po’ come andare, dopo la morte della nonna, nella sua soffitta a rovistare tra scatole, ricordi e cianfrusaglie» (p. 119).

«L’inventario durò mesi: mi riferisco alla fabbrica nel suo complesso. Forse addirittura qualche anno […]. Dopo le carte mi toccò catalogare le attrezzature, gli utensili […]. Tutto, insomma» (p. 121).

Questo è l’inventario della memoria collettiva, che racchiude il destino severo di un’opera umana: «abbiamo perduto […] non una semplice battaglia, ma la guerra. Almeno questa guerra […]. Le fabbriche a Napoli non hanno indotto nessuna modernizzazione. Dicevamo: l’Ilva entrerà nel vicolo e lo bonificherà. Alla lunga è accaduto l’inverso: il vicolo è entrato nell’Ilva e l’ha inquinata» (p. 83).

L’inventario privato, un po’ come il “retrobottega” di Montaigne, allude a un significato più intimo, quasi di viaggio interiore, come ne L’Anonimo Lombardo (1959) di Alberto Arbasino: «Così introducevo tests e reattivi nella conversazione; così approfondivo tormentosamente le conoscenze del mio io interiore e tentando di giungere a un inventario completo più che fosse possibile così schedavo ogni moto dell’animo, catalogavo sensazioni» (p. 224).

Tra Arbasino e Rea, si colloca Gina Lagorio, che rende protagonista assoluto l’inventario della sua esistenza, titolando Inventario il suo “diario pubblico”, catalogo di memoria privata: «è stata proprio questa continuità del sentire, immediato e senza alcuna compiacenza di retorica, che mi ha fatto capire il perché della mia voglia di inventario personale, nella quiete della notte, in camera, senza gli inganni della luna» (1997, p. 8).

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