Non c'è fonte così autorevole da esonerarci dall'onere della verifica, neppure gli atti emanati dall'autorità giudiziaria. Questo è l'insegnamento che storici e archivisti possono desumere da una recente sentenza della Cassazione.

Il 12 ottobre 2020, la III Sezione civile della Suprema Corte (con la sentenza n. 21969) ha rigettato il ricorso presentato dall’editore de “Il Fatto Quotidiano”, contro la condanna per diffamazione inflittagli dalla Corte d’Appello di Catania. Il reato che è costato a “il Fatto Quotidiano” 30.000 euro più le spese, è stato l’aver pubblicato una notizia diffamatoria trovata in un decreto emanato da un giudice, senza averla verificata. “Il Fatto” si sarebbe potuto risparmiare molti grattacapi e un bel po’ di soldi – e avrebbe risparmiato alle vittime una ferita che nessun risarcimento monetario potrà mai pienamente sanare – se avesse ricordato quanto scriveva un’ottantina di anni fa March Bloch: “Le testimonianze più insospettabili nella loro dichiarata provenienza non sono necessariamente testimonianze veridiche.” (Apologia della storia, Einaudi 1981, p. 90).

Il 2 giugno 2010 “Il Fatto Quotidiano” pubblicò un articolo intitolato Le relazioni pericolose di Dell’Utri nel quale, attingendo da un decreto di archiviazione emanato dal GIP di Caltanissetta nel 2002, relativo ad una indagine su Dell’Utri, si affermata che questi aveva avuto numerosi contatti con “l’avvocato catanese Nino Papalia, indagato in passato dalla DDA di Catania per traffico d’armi.” In altre parole, l’autore dell’articolo, avendo trovato in un decreto di archiviazione di otto anni prima la notizia che Papalia era stato indagato per traffico d’armi, aveva pubblicato la notizia senza verificarla.

Gli eredi dell’avv. Nino Papalia, nel frattempo deceduto, citarono in giudizio per diffamazione l’editore del quotidiano, spiegando che era vero che originariamente il decreto di archiviazione affermava che Papalia era stato indagato per traffico di armi, ma poi su istanza dell’interessato – che non era mai stato indagato dalla DDA di Catania, né mai indagato per traffico di armi – il decreto di archiviazione era stato corretto dal GIP nisseno.

Il giudice di primo grado aveva dato ragione al giornale, “ritenendo che, dinanzi alla fonte informativa rappresentata da un provvedimento dell’autorità giudiziaria, il giornalista non era onerato di alcuna verifica,” considerando che la correzione di un decreto di archiviazione è un evento eccezionale (Cassazione civile, sentenza n. 21969/2020, p. 5). La Corte d’Appello prima e la Cassazione poi hanno invece dato torto a “Il Fatto”.

Per comprendere la natura della controversia giudiziaria, occorre considerare che l’art. 59, comma 4, del Codice penale stabilisce che se l’autore del reato “ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui.” In pratica, in determinate circostanze, i reati sono scusabili, se chi li commette ritiene in buona fede di star agendo correttamente. L’art. 59 del Codice penale però poi aggiunge che questa scusante non vale se l’errore di valutazione deriva da una colpa (ad esempio, se non si è ottemperato ad un obbligo). Quindi, nel caso oggetto della sentenza della Cassazione civile n. 21969/2020, il punto era appurare se sussistesse o meno l’obbligo di verificare la notizia trovata nel decreto di archiviazione.

Nel loro ricorso in Cassazione, gli avvocati de “Il Fatto” avevano scritto che “la correzione di un decreto di archiviazione, su richiesta di terzi, è una di quelle eventualità talmente imprevedibili da non poter generare un obbligo di verifica” (p. 8). Avevano poi citato la massima di una sentenza della Cassazione secondo cui “il giornalista ha l’obbligo di controllare l’attendibilità della fonte informativa, a meno che non provenga dall’autorità investigativa o giudiziaria” (Cass. civ., sez. 3, 4 febbraio 2005 n. 2271).

Di tutt’altro segno il giudizio della Corte d’Appello prima e della III sezione della Cassazione poi. Innanzi tutto, la Corte d’Appello aveva rilevato la lunghezza del tempo intercorso tra il decreto di archiviazione (2002) e la pubblicazione dell’articolo (2010). Il decreto di archiviazione parlava di indagini effettuate “in passato” a carico di Papalia. Il giornalista aveva l’obbligo di accertare che esito avessero avuto tali indagini, posto che un’indagine “notoriamente, deve sfociare in una conclusione positiva o negativa nei confronti dell’indagato.” (p. 10) Per parte sua, la Cassazione spiega che non si può “riportare che una persona è stata indagata in passato senza nulla dire dell’esito dell’indagine.” (p. 15)

Inoltre, rileva la Cassazione,

La natura della fonte, invero, secondo un insegnamento che ormai può ben dirsi uniforme, non esonera mai il giornalista dall’onere di esaminare, controllare e verificare la notizia, così da sopprimere ogni dubbio sulla sua veridicità. (pp. 10-11)

La sentenza cita quindi una serie di precedenti pronunce sempre della Cassazione, nelle quali si afferma che anche se la fonte utilizzata dal giornalista viene considerata di elevata attendibilità, la pubblicazione di una notizia diffamatoria non si configura come reato solo se il giornalista “ha provveduto a sottoporre al dovuto controllo la notizia” (p. 11) e, ancora, se la notizia era “frutto di un serio e diligente lavoro di ricerca” e il giornalista l’aveva “accuratamente verificata” (p. 12).

La Cassazione ha inoltre osservato che la sentenza citata nel ricorso de “Il Fatto”, secondo cui non sussiste l’obbligo di verificare una notizia proveniente dall’autorità investigativa o giudiziaria, si riferisce a notizie pubblicate a ridosso dei fatti, nell’immediatezza della cronaca. Tutt’altro caso è quando si pubblica ad anni di distanza.

Infine, secondo la III Sezione della Cassazione il punto chiave è che un decreto di archiviazione è opponibile; ed è anche possibile che il giudice delle indagini preliminari autorizzi la riapertura delle indagini. Quindi se si pubblica “una notizia potenzialmente lesiva dell’onore e della reputazione di una persona, emergente da un decreto di archiviazione” bisogna controllare

se il decreto sia stato opposto, e in ogni caso se al decreto non sia sopravvenuta la riapertura delle indagini (…) giacché entrambe le evenienze  si prestano a incidere, per quanto come eventualità, sull’attualità e sulla verità del decreto di archiviazione. (p. 16)

Negli ultimi anni è cresciuta considerevolmente l’accessibilità delle fonti giudiziarie e il loro utilizzo da parte dei ricercatori; fonti preziosissime, ma è bene non dimenticare che anche queste fonti vanno vagliate con la consueta acribia critica propria del lavoro storiografico. In particolare è necessaria un’accurata verifica prima di pubblicare notizie potenzialmente diffamatorie rinvenute in tali fonti.

Per saperne di più

La sentenza della Cassazione

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