Nel 2019 si stima che oltre 64 milioni di persone abbiano visto la terza stagione della serie targata Netflix Stranger Things, 45 milioni The Umbrella Academy, 13,6 milioni di persone il solo finale dell’ottava serie di Game of Thrones. E questo mercato sempre più affamato di narrazioni si confronta sempre più spesso con un particolare tipo di racconto, quello storico

Nel 2019 si stima che oltre 64 milioni di persone abbiano visto la terza stagione della serie targata Netflix Stranger Things, 45 milioni The Umbrella Academy, 13,6 milioni di persone il solo finale dell’ottava serie di Game of Thrones. Oltre al crudo dato numerico, alla sempre più vasta condivisione di orizzonti culturali creati dall’industria dello spettacolo, e al fatto che potrebbe interessare agli archivisti questa così vasta diffusione del termine serie e del concetto di serialità, è rilevante sottolineare come questo mercato sempre più affamato di narrazioni si confronti spesso con un particolare tipo di racconto, quello storico.

E nel contesto particolare di queste narrazioni, oltre all’autodenuncia “tratto da una storia vera” si assiste a una sempre più sofisticata e ampia ricerca delle fonti d’archivio. Non che tale strategia narrativa sia una novità, forzando un paragone non ci sarebbe poi tanta differenza dal “travaglio di decifrare lo scarabocchio” di manzoniana memoria. Ciò che probabilmente cambia è la dimensione quantitativa e la capillarità del fenomeno.

Paradigma di tale situazione è una recente mini serie (sotto?) serie, prodotta da HBO e distribuita in Italia da Sky Atlantic, Chernobyl, una cronistoria del disastro nucleare del 1986.
Complice anche il successo di pubblico e critica ottenuto fin dalla messa in onda, la serie è stata positivamente commentata per l’attenzione al dettaglio, la ricostruzione filologica di situazioni e atmosfere, l’uso di materiali audiovisivi d’archivio o ricostruiti con cura maniacale; diventando oltre che racconto della catastrofe in sé, quasi metafora del secolo breve, tragica parabola dell’esperimento sovietico e canto del cigno dell’eroismo del popolo minuto, anonimo, che come il povero soldato dell’armata rossa o il minatore di carbone accetta il sacrificio di sé stesso più in nome di un’anima russa atemporale che del socialismo reale.

Per corroborare questo senso di realismo, alla vigilia dell’uscita della serie, è stato pubblicato un video su YouTube che mostra come l’intera costruzione filmica sia stata pensata con un’aderenza quasi totale alle immagini riprese proprio in quei giorni dell’aprile del 1986 (niente meno che HBO’s Chernobyl vs. Reality). Quasi.
In un articolo pubblicato sulla rivista online Doppiozero (Un’osservazione a partire da Chernobyl), Mario Farina riflette sulla problematica del vero e del verosimile nei prodotti di finzione narrativa proprio a partire dalle licenze drammatiche prese da Craig Mazin, regista della serie, per innalzare l’attenzione dello spettatore:

Nella Poetica Aristotele scrive che nel dramma è preferibile un “impossibile credibile a un possibile incredibile” (Poetica, 1461b, 12). Questa osservazione lapidaria dice più di quanto il suo autore non avesse progettato. E mette nelle condizioni di impostare nuovamente un discorso sul significato della scrittura di finzione in rapporto agli eventi storici.

Ed è qui che i nodi delle esigenze narrative si scontrano con la complessità della vicenda storica e, spesso, della sua non spettacolarità in termini filmici. In questo senso è interessante, almeno dal punto di vista di chi scrive, il rapporto che tali opere instaurano con la fonte archivistica, con i documenti che a vario titolo vengono chiamati in causa per rendere più vero, o verosimile, l’intreccio narrativo: dalle copie dei documenti e dai telegiornali dell’epoca fino alle scene “metaarchivistiche” in cui la protagonista femminile della serie (personaggio di invenzione simbolo del mondo scientifico russo che cerca come un grillo parlante di convincere il politburo del pericolo del sistema nucleare sovietico), visita una biblioteca/archivio alla ricerca di documenti, ovviamente secretati, tutto è ricostruito per rispondere alla nostra aspettativa di verosimiglianza storica.

Il documento storico o la ricostruzione “in stile” di documenti originali diventano l’incarnazione visiva della famigerata enunciazione “tratto da una storia vera” o dai titoli di coda, tipici delle narrazioni storiche, che rivelano i destini delle persone raccontate dopo la fine della finzione filmica, quel momento magico in cui i volti degli attori si possono paragonare con le fotografie e i filmati delle persone vere. Dalla memoria autodocumentazione a memoria-fonte passiamo alla memoria-rappresentazione o memoria-intrattenimento. Per comprendere come tale operazione non solo non sia affatto neutra, ma è foriera di interpretazioni storiche con grandi ricadute sul presente, basti sapere che in tutta risposta a Chernobyl, la Russia ha dapprima criticato la serie per poi produrre una “contro-serie” di risposta nella quale la narrazione si concentra sulla presenza di un misterioso agente della CIA nei pressi di Pry’pyat durante i giorni dei test che portarono all’incidente nucleare.

Il problema non è istituire grotteschi tribunali della correttezza storica delle opere di finzione narrativa, semmai si tratta di non cadere nell’equivoco di guardare a tali opere come fossero documentari.

Il clima da guerra fredda ci è congeniale per introdurre la seconda parte della riflessione, passando dalle fredde pianure dell’URSS della fine degli anni Ottanta agli Stati Uniti e cambiando prospettiva, dalle serie tv di argomento storico a un vero e proprio “scandalo” documentario che colpisce una delle personalità più importanti della storia recente statunitense, Martin Luther King. Ma anche in questo caso il rapporto tra narrazione, documenti e serie è più che mai rilevante.

Tutto nasce dalla pubblicazione di un articolo del celebre autore e vincitore del Pulizer David J. Garrow, The troubling legacy of Martin Luther King: Newly-revealed FBI documents portray the great civil rights leader as a sexual libertine who ‘laughed’ as a forcible rape took place.

Garrow scrive un lungo articolo a partire dalla lettura della massiccia desecretazione di documenti avvenuta tra 2017 e 2018 da parte dei National Archives statunitensi (President John F. Kennedy Assassination Records Collection Act of 1992ne abbiamo parlato qui); in questi documenti vengono citati numerosi passaggi di altra documentazione dell’FBI (secretata fino al 2027) che si riferisce agli anni in cui Martin Luther King era sotto stretta sorveglianza da parte del Bureau di Edgar J. Hoover. Dalle trascrizioni emergerebbe un Dr. King campione di infedeltà coniugale e incoraggiatore di violenze sessuali. Garrow nel suo articolo cita più passaggi ed episodi fornendo un contesto più vasto alla vicenda inserendola nell’attività dell’FBI di quegli anni, e mostra come tutta la sui ricerca si sia basata sui documenti pubblicati online sul sito del NARA.
In particolare conclude il suo articolo citando le stesse parole di King nel 1968 alla comunità di Ebenezer, quasi come fossero una confessione:

There is a schizophrenia, as the psychologists or the psychiatrists would call it, going on within all of us. There are times that all of us know somehow that there is a Mr Hyde and a Dr Jekyll in us.” But he nonetheless insisted that “God does not judge us by the separate incidents or the separate mistakes that we make, but by the total bent of our lives.” Some of us now-ageing King scholars “may not get there with you” come 2027, but there is no question that a profoundly painful historical reckoning and reconsideration inescapably awaits. 

L’articolo di Garrow ha scatenato un accesissimo dibattito tra gli storici statunitensi, le comunità afroamericane, gli eredi del Dr. King e in generale l’opinione pubblica progressista USA, dibattito che dapprima si è concentrato sul significato dell’eredità politica di Martin Luther King e successivamente si è spostata sull’attendibilità delle fonti.
In diversi articoli di risposta a Garrrow, tra cui quello di Jennifer Schluesser sul «New York Times» (His Martin Luther King Biography Was a Classic. His Latest King Piece Is Causing a Furor) l’approccio di Garrow viene criticato per la totale accettazione della veridicità che egli confida verso le trascrizioni, sia in senso soggettivo che oggettivo: in primo luogo si sta parlando di citazioni su documenti che riprendono frammenti di trascrizioni di registrazioni ambientali realizzate alla metà degli anni Sessanta e in secondo luogo il contesto da considerare è quello di una vera a propria campagna denigratoria dell’FBI verso King, come fu il caso della “lettera del suicidio” nella quale un anonimo estensore (che si scoprì essere un agente del Bureau) invitava il pastore a togliersi la vita.

Nell’attesa del fatidico 2027 e della conseguente desecretazione dei documenti originali colpisce che nell’intera discussione che si è aperta negli USA sulla figura di King ci sia una grande assente: la serie, il contesto archivistico che rende comprensibile il singolo documento. Garrow cita con meticolosa attenzione passaggi e paragrafi di allegati pdf disseminati sul sito del NARA, i suoi critici controbattono sull’affidabilità di documenti prodotti dall’FBI di Hoover, in Italia parliamo di ricerche storiche condotte tutte online

Siamo di fronte a narrazioni confliggenti affamate di documenti a buon mercato anche in questo caso? Quale sia il contesto archivistico dei documenti pubblicati e di quelli ancora secretati, comprenderlo, interpretarlo, dargli un orizzonte di significato sul quale costruire una conoscenza critica del passato è una responsabilità dei soli archivisti?

Probabilmente, come per gli sceneggiatori di Chernobyl, si chiedono ai documenti più risposte di quanti essi ne possano dare.

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