Tra luglio e settembre 2019, tre sentenze (una della Cassazione, sezioni unite civili,19681/2019, e due della Corte di giustizia della UE) e una pronuncia del Garante precisano significato e ambito di applicazione del diritto all'oblio.

In sede giudiziaria, l’espressione diritto all’oblio può assumere tre diversi significati:

  1. L’articolo 17 del Regolamento UE 2016/679 sulla protezione dei dati personali (d’ora innanzi GDPR) reca la rubrica Diritto alla cancellazione («diritto all’oblio»): il regolamento riconosce all’interessato «il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano», purché ricorrano determinate condizioni, indicate dal regolamento stesso.
  2. Due anni prima dell’emanazione del GDPR, nel 2014, la Corte di giustizia dell’Unione Europea aveva affermato l’esistenza di un diritto all’oblio nell’ordinamento europeo, sulla base della direttiva del 1995 sulla protezione dei dati personali (direttiva 95/46/CE), intendendo per diritto all’oblio non la cancellazione dei dati, ma solo la loro deindicizzazione da parte dei motori di ricerca, quando i dati sono pubblicati su internet. L’informazione non deve essere cancellata: resta on line, ma non può essere più rintracciata usando come chiave di ricerca il nome dell’interessato (la si può però rintracciare usando altre chiavi di ricerca). (Sentenza nella causa C-131/12).
  3. Nel 1998, la Corte di Cassazione italiana aveva invece definito il diritto all’oblio come «il legittimo interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore ed alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia, in passato legittimamente divulgata» (Cassazione, III sez. civ, sentenza 3679/1998). Il caso riguardava una tradizionale pubblicazione su carta stampata: niente a che vedere con internet e con il diritto all’oblio come inteso dalla Corte di giustizia della UE.

Tra fine luglio e fine settembre 2019, in materia di diritto all’oblio sono state pronunciate una sentenza della Cassazione a sezioni unite (quindi particolarmente autorevole), due sentenze della Corte di giustizia della UE e un provvedimento del Garante: si tratta di quattro pronunce importanti, che precisano come vada interpretato e applicato tale diritto. Nei casi discussi davanti alla Corte di giustizia della UE e al Garante, si trattava di diritto all’oblio nella seconda accezione sopra ricordata (cioè deindicizzazione da parte dei motori di ricerca). Nel caso discusso davanti alla Cassazione, si trattava della ripubblicazione di una vecchia notizia da parte di un quotidiano; si parlava quindi di “diritto all’oblio” inteso nella terza accezione.

Partiamo dalla sentenza della Cassazione, sezioni unite civili (19681/2019), relativa alla controversia suscitata dalla pubblicazione, da parte di un quotidiano a carattere locale, di un articolo che rievocava l’uxoricidio perpetrato da un piccolo artigiano, 27 anni prima. L’artigiano nel frattempo aveva scontato la pena ed aveva faticosamente riavviato la propria attività; la pubblicazione dell’articolo gli aveva fatto perdere la clientela e si era ritrovato in miseria; per questo, aveva citato in giudizio il quotidiano. In primo e secondo grado era risultato soccombente; la Cassazione ha però ribaltato il giudizio, accogliendo il suo ricorso.
L’articolo in questione era apparso nell’ambito di una rubrica settimanale in cui venivano rievocati i casi di cronaca nera dell’ultimo quarantennio, che avevano avuto un particolare impatto nella città. La Corte d’appello aveva verificato che l’articolo era accurato nei contenuti e non presentava alcuna “spettacolarizzazione” dell’omicidio; era chiaro il carattere di rievocazione storica dell’articolo ed indubbio l’interesse del pubblico ad essere informato sulla materia.
La Cassazione però ha osservato che il giornalista, quando scrive su casi giudiziari vecchi di decenni, non sta «esercitando il diritto di cronaca, quanto il diritto alla rievocazione storica (storiografica) di quei fatti»: attività preziosa, ma diversa dalla cronaca.

Ne deriva che simile rievocazione, a meno che non riguardi personaggi che hanno rivestito o rivestono tuttora un ruolo pubblico, ovvero fatti che per il loro stesso concreto svolgersi implichino il richiamo necessario ai nomi dei protagonisti, deve svolgersi in forma anonima, perché nessuna particolare utilità può trarre chi fruisce di quell’informazione dalla circostanza che siano individuati in modo preciso coloro i quali tali atti hanno compiuto.

La Cassazione ha poi spiegato che «il diritto ad informare, che sussiste anche rispetto a fatti molto lontani, non equivale in automatico al diritto alla nuova e ripetuta diffusione dei dati personali». Come si vede, la Cassazione ha affermato un principio già noto ad archivisti e storici: in buona sostanza, infatti, lo stesso principio è affermato dall’art. 11 delle Regole deontologiche per il trattamento a fini di archiviazione nel pubblico interesse o per scopi di ricerca storica. Gli archivisti faranno bene a ricordarlo ai loro utenti.

Le due sentenze della Corte di giustizia della UE (CGUE) sul diritto all’oblio del 24 settembre 2019 hanno un interesse meno diretto per gli archivisti, ma sono comunque utili a comprendere come si vada configurando il diritto all’oblio nell’ambito della UE. La prima è relativa alla causa C-507/17 tra l’autorità francese per la protezione dei dati personali (Commission nationale de l’informatique et des libertés ‒ CNIL) e Google Inc., e concerne l’estensione territoriale delle deindicizzazioni. La questione interpretativa che il Consiglio di Stato francese aveva posto alla CGUE era se, «quando il gestore di un motore di ricerca accoglie una domanda di deindicizzazione, è tenuto ad effettuare» la deindicizzazione «su tutte le versioni del suo motore di ricerca» oppure «solo su quella corrispondente allo Stato membro di residenza del beneficiario della deindicizzazione» (in questo caso, solo su Google.fr), oppure ancora su tutte quelle dei paesi membri (Google.it, Google.de, Google.eu, ecc.).
La CNIL aveva multato Google di 100.000 euro per non aver applicato la deindicizzazione a tutte le estensioni del nome di dominio del suo motore di ricerca, quando accoglieva delle istanze di deindicizzazione. Google ha fatto ricorso al Consiglio di Stato, che ha interpellato la Corte di giustizia della UE sulla corretta interpretazione della normativa europea.
La CGUE ha sentenziato che:

allo stato attuale, non sussiste, per il gestore di un motore di ricerca che accoglie una richiesta di deindicizzazione presentata dall’interessato (…) un obbligo, derivante dal diritto dell’Unione, di effettuare tale deindicizzazione su tutte le versioni del suo motore.

La deindicizzazione deve essere effettuata, però, nelle versioni del motore di ricerca di tutti gli Stati membri della UE. Inoltre, il motore di ricerca deve adottare misure che impediscano o, almeno scoraggino seriamente, gli utenti dall’accedere ai link rimossi nelle versioni europee, tramite una versione “extra UE”.

La seconda sentenza della CGUE (causa C‑136/17) scaturisce da un altro quesito posto dal Consiglio di Stato francese, relativo a quattro ricorsi che riguardavano in un modo o nell’altro, il trattamento di dati sensibili da parte dei motori di ricerca. La Corte ha ribadito che l’attività di indicizzazione effettuata dai motori di ricerca deve essere considerata “trattamento di dati personali” e quindi soggetta alle limitazioni previste attualmente dal GDPR, e precedentemente dalla direttiva 95/46/CE, per quanto riguarda il trattamento dei dati sensibili.
Di conseguenza, il gestore di un motore di ricerca deve, in linea di massima, accogliere le richieste di deindicizzazione riguardanti i link che rinviano a pagine web nelle quali compaiono dati personali sensibili, a meno che tali link non si rivelino strettamente necessari per proteggere la libertà di informazione degli utenti di Internet potenzialmente interessati ad avere accesso alle pagine web contenenti i dati sensibili.
Nel caso dei dati giudiziari, il motore di ricerca è tenuto ad accogliere una richiesta di deindicizzazione verso pagine web che contengono informazioni non più attuali (ad esempio, informano su di una condanna in primo grado di una persona poi assolta in appello), a meno che il ruolo pubblico rivestito dalla persona, la gravità del reato ed altre circostanze non rendano prevalente l’interesse pubblico alla conoscenza. Nel caso il gestore del motore di ricerca valuti come prevalente l’interesse pubblico all’informazione ‒ e dunque i link non vadano rimossi ‒ dovrà comunque “sistemare l’elenco dei risultati in modo tale che l’immagine globale che ne risulta per l’utente di Internet rifletta la situazione giudiziaria attuale”. In altre parole, l’algoritmo dovrà ordinare i risultati non in base alla loro popolarità, ma in base all’attualità dell’informazione.

La deindicizzazione dei dati giudiziari non più attuali è stata oggetto anche del provvedimento del Garante n. 153, del 24 luglio 2019. Un imprenditore aveva nel 2010 patteggiato una pena di otto mesi e nel 2013, scontata la pena, aveva ottenuto la riabilitazione, istituto che, «pur non estinguendo il reato, comporta il venir meno delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna» Nel 2019, l’imprenditore aveva chiesto a Google di rimuovere i link che associavano il suo nome alla notizia della sua condanna. Google si era rifiutata, in considerazione del poco tempo trascorso e delle gravi fattispecie criminose all’origine della condanna. Il Garante ha dato ragione all’imprenditore: la riabilitazione,

unitamente al lasso di tempo decorso dal verificarsi dei fatti, implica che l’ulteriore trattamento dei dati dell’interessato (…) determina un impatto sproporzionato sui diritti del medesimo che non risulta bilanciato da un attuale interesse del pubblico a conoscere della relativa vicenda.

Come ha spiegato l’autorità garante,

La permanenza in rete di notizie di cronaca giudiziaria non aggiornate può rappresentare un ostacolo al reinserimento sociale di una persona. Il diritto all’oblio va riconosciuto anche a chi è stato riabilitato dopo una condanna. (“Newsletter”, 457, 23 settembre 2019)

Sarà bene che gli archivisti tengano presente queste pronunce, quando assumono decisioni in merito alla pubblicazione in rete di documenti o strumenti di ricerca contenenti dati personali relativi a condanne penali o reati, relativi a persone che possono essere ancora in vita.

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